(Adnkronos) – “Quando una persona lascia il proprio paese, da quel momento è rincorso da qualche presenza. Credo che ogni paese sia uno stato mentale. Sono le storie che ci hanno raccontato, che con il passare del tempo cambiano forma, si dissolvono, e l’interpretazione di questa assenza è l’essenza del film”. Alejandro G. Iñárritu torna in concorso a Venezia otto anni dopo Birdman e lo fa con ‘Bardo – Falsa crónica de unas cuantas verdades’, film che lo riporta ai suoi luoghi natali, il Messico, dove non girava dal 2000 (Amores perros).
“Oggi ricorre un anniversario speciale per me e per la mia famiglia, perché l’1 settembre 2001 abbiamo lasciato il Messico per andare a vivere a Los Angeles. Pensavamo di andare via per un anno e invece ne sono passati 21: tornato lì per fare le riprese di questo film mi sono ritrovato come di fronte ad uno specchio, si è trattato di reinterpretare emozionalmente un ricordo”.
Scritto dal regista insieme a Nicolás Giacobone, il film – targato Netflix, che lo porterà nelle sale di tutto il mondo per poi ospitarlo in piattaforma dal 16 dicembre – è un’esperienza immersiva epica e visivamente straordinaria, ambientata durante l’intimo e commovente viaggio di Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho), un noto giornalista e documentarista messicano che vive a Los Angeles.
L’uomo, dopo aver ricevuto un prestigioso riconoscimento internazionale, è costretto a tornare nel suo paese natale, ignaro che questo semplice viaggio lo spingerà verso una profonda crisi esistenziale. La follia dei suoi ricordi e delle sue paure riesce a perforare il presente, riempiendo i suoi giorni di un senso di sconcerto e stupore.
Tra emozioni e risate, Silverio lotta per trovare risposte a domande universali eppure intime, riguardanti la propria identità, il successo, la fragilità della vita, la storia del Messico e i profondi legami sentimentali che condivide con la moglie e i figli. In breve, cosa significa essere umani in questi tempi molto particolari.
“Ogni paese possiede le proprie storie, noi le viviamo e le filtriamo grazie al nostro vissuto, alla nostra geografia, alla realtà che sin da quando siamo piccoli ci viene raccontata. E c’è una sorta di eterna rappresentazione di qualsiasi evento. Quando lasci il tuo paese puoi iniziare a vedere queste storie con maggiore chiarezza o con maggiore difficoltà. Silverio si rende conto che tutto è finzione, che la realtà di fatto non esiste: l’acqua, la sabbia, ogni elemento si trasforma, ogni cosa diventa uno stato mentale”, spiega ancora Iñárritu.
Che sull’aspetto autobiografico dell’opera chiarisce: “Questo film a differenza degli altri è stato fatto con tutto il mio cuore prima ancora che con la testa, non c’è nulla di autobiografico in realtà ma è un viaggio emotivo molto forte. Possiamo chiamarla autofiction, volendo, dato che viviamo in un mondo di finzione: alla mia età realizzi che la realtà non esiste, tutte le storie, la memoria, danno senso alla tua vita, ma gli eventi che ti accadono finisci sempre per reinterpretarli attraverso altri elementi. La memoria non ha la verità, ma le emozioni”.
Girato in 65 mm, con il candidato all’Oscar Darius Khondji (Amour, Se7en) alla fotografia, BARDO è interpretato anche da Griselda Siciliani, Ximena Lamadrid, Iker Sanchez Solano, Andrés Almeida e Francisco Rubio.
Proprio come avvenne qualche anno fa con Roma di Alfonso Cuarón – film Netflix presentato con successo a Venezia e pluricandidato agli Oscar – BARDO restituisce sullo schermo il recupero della memoria delle proprie radici di uno tra i registi messicani più affermati a livello internazionale (due volte premio Oscar per Birdman e The Revenant): “Netflix mi ha dato libertà assoluta, il film uscirà nei cinema di tutto il mondo e apprezzo moltissimo il fatto che la gente possa viverlo attraverso l’esperienza cinematografica, perché credo che meriti di essere visto così. Ricordo però che quando ero studente di cinema i vari Bergman, Fellini, Buñuel (“Un film è un sogno diretto da un regista”…) li vedevo in VHS, tra l’altro con una qualità terribile. Probabilmente tra 10 anni avremo degli schermi invisibili, quello che sopravvivrà sempre saranno le idee e, con esse, il mezzo, ovvero il film”.
Il sogno nel sogno (quel volo che apre e chiude il film, “è un mio sogno ricorrente”, dice il regista), il limbo (era questo in origine il titolo del film) costante, il non essere qui ma neanche di là, la memoria che non ha mai la verità, ma solo emozioni e, sottolineato in un passaggio dove il protagonista rimpicciolisce di fronte alla figura dell’anziano padre, in realtà morto anni prima, “il mio più grande fallimento è stato il successo”, con le evidenti analogie rispetto al personaggio interpretato all’epoca da Michael Keaton in Birdman.
“Il successo ha un sapore agrodolce, ha il suo prezzo, un costo, significa sacrificare alcune parti della propria vita, togliere del tempo alla propria famiglia”, dice il regista, che aggiunge: “Può avvelenare, questa è una cosa che diceva mio padre, uomo che aveva avuto un rapporto complicato con il successo. Lo ha avuto, ma lo ha anche perso. Il successo per lui aveva due rischi costanti, inevitabili e presenti: la tentazione dell’orgoglio, che in un certo modo ti intossicava e l’inevitabile perdita del successo che ti porta al dolore. Avere successo quindi è una sorta di condanna dolceamara, crea aspettative anche nei confronti delle altre persone e ti costringe a modificare le priorità”.
Successo, però, che il regista ottenne sin da subito grazie all’exploit di Amores perros e che gli ha consentito di trasformarsi in un “immigrato di prima classe”, come ricorda il figlio al protagonista di Bardo: “È indubbiamente così, non corrispondo allo stereotipo di chi lascia il proprio paese perché costretto dagli eventi o dall’impossibilità di un futuro roseo. Sono andato via per mia volontà, per scelta, per trovare nuove opportunità, nuove cose”.