Per il vaccino ai bambini tra 5 e 11 anni, “il punto è sempre il calcolo tra rischi e benefici. Qualsiasi farmaco può dare effetti collaterali, la strategia corretta è evitare il rischio quando, anche se basso, non è indispensabile. Se un bambino ha già di suo delle altre patologie gravi, conviene vaccinarlo, per proteggerlo da un virus che, associato ad altre malattie, può rivelarsi grave. Se invece è sano, non vedo necessità di vaccinarlo. Almeno data la situazione odierna, poi le cose possono sempre cambiare. Quanto al rischio di miocarditi, i casi sono rari e la miocardite a un bambino può venire anche a seguito di un long-Covid”. Lo dice a Libero Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani di Roma, l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive, spiegando che “i bambini hanno una vita sociale meno intensa degli adulti, frequentano poco o affatto i mezzi pubblici, stanno per lo più in ambienti protetti dove tutti sono vaccinati, come le scuole. Si dice che i piccoli si contagiano e contagiano anche gli altri ma analizzando i dati non si può dire che al momento la loro incidenza sul propagarsi del virus sia forte. Vaccinare i bambini per proteggere gli anziani? La solidarietà sociale da chi ha meno di dodici anni rasenta l’ideologia e il fanatismo. Il vaccino non va fatto ai bambini per impedirgli di contagiare gli adulti, ma solo se sono fragili di loro”.
Secondo Vaia “ci concentriamo troppo sui no vax, che sono una minoranza. Bisognerebbe piuttosto spingere a tavoletta sulla terza dose, nelle fasce di popolazione fragili, negli over 80, nei sanitari, in coloro che hanno rapporti con il pubblico, e convincere soprattutto chi non ha completato il ciclo vaccinale, ancora troppi. In Italia si è immunizzato l’85% delle persone: è più facile persuadere loro a sottoporsi a una terza iniezione, piuttosto che far vaccinare uno che finora non lo ha ancora fatto, salvo che non pensiamo ad azioni coraggiose di obbligo per fasce di popolazione. Ma quest’azione dovrà necessariamente essere accompagnata ad altre che riconquistino la fiducia del cittadino nello strumento vaccino che in questi giorni sento vacillare”.
“Dobbiamo dare la certezza all’opinione pubblica – continua l’esperto – che chi si vaccina non fa una cortesia a nessuno se non a se stesso e ai propri parenti e amici. Noi ci amiamo e amiamo i nostri cari, questo il senso vero (richiamo la mia campagna #Miamo, sostenuta da tantissimi artisti). Dobbiamo spiegare bene che la profilassi sta portando risultati importanti e che non si fa la terza dose per svuotare i magazzini o far guadagnare le case farmaceutiche ma perché salva la vita”.
“Si sbaglia però – sottolinea Vaia – a descrivere il vaccino come una pozione magica, che ti trasforma in Superman o Superwoman, perché poi quando un vaccinato si ammala – capita – tutta la narrazione crolla e i no vax se la ridono, anzi diamo loro tanta legna da ardere. E, se mi consente, argomenti per dibattiti a volte surreali. Le prime due dosi sono servite in maniera incontrovertibile a proteggere la popolazione finora, ma hanno un’efficacia calante, che dopo sei-otto mesi scende di parecchio e lo fa più velocemente tanto più una persona è anziana o fragile. Ricordiamoci comunque che se da maggio l’Italia può considerarsi tra i Paesi che meglio contrastano il virus è perché la campagna vaccinale è stata un successo, come riconosciuto in tutto il mondo”.
L’attuale risalita dei casi, secondo Vaia, è dovuta in parte alla perdita d’efficacia del vaccino in chi vi si è sottoposto a gennaio-febbraio, “ma anche alla stagionalità: questa è una malattia prevalentemente respiratoria, che pertanto esplode in autunno e inverno, quando si vive maggiormente al chiuso e le temperature più rigide predispongono di più. E poi forse vi è stato un legittimo calo di tensione, dopo un anno in lockdown succeduto a mesi nei quali le cose sono andate molto bene. C’è forse troppa rilassatezza e omettiamo comportamenti che sono necessari a evitare la trasmissione del contagio. Il nemico è alle corde ma dobbiamo ancora abbatterlo definitivamente. Lo faremo ma mai sottovalutarlo”.
“Siamo a cinque-seimila casi – prosegue l’infettivologo – e la crescita avanza con una esponenzialitá ben più bassa rispetto all’autunno 2020, siamo distanti anni luce da quei numeri. Però vi sono due azioni da compiere assolutamente perché la situazione migliori ulteriormente e spero definitivamente. La prima è l’ampliamento dell’obbligo vaccinale a tutte le categorie di lavoratori che hanno rapporti con il pubblico. Non solo medici, professori e chi opera nella ristorazione, ma anche chi lavora nella grande e piccola distribuzione, voi giornalisti, chi guida gli autobus o fa politica. La seconda proposta riguarda la comunicazione. Viviamo un paradosso: la gente vuole capire ma si spiega poco, facendo così il gioco dei no vax, perché dove c’è cattiva comunicazione nascono prima la confusione e poi i sospetti; infine le teorie del complotto. Stiamo buttando via il bambino con l’acqua sporca, dando la sensazione che chi impone il Green pass non lo fa per favorire la vaccinazione e quindi mettere in sicurezza il Paese bensì per rincorrere interessi politici e industriali. Il governo dovrebbe impegnarsi per fare una fortissima operazione di persuasione verso le case farmaceutiche perché aggiornino i vaccini e li strutturino sulle nuove varianti. Dobbiamo rimodulare i vaccini e dirlo, basta dare la sensazione che vacciniamo per smaltire le scorte. Lo so che non è così ma spesso si avverte questa sgradevole sensazione. Inutile rincorrere un’immunità di gregge che non ci sarà mai, in una ricerca ossessiva della performance numerica. Non conta quanti cittadini sono stati inoculati ma quanti sono davvero protetti. Dire che il 90% delle persone è vaccinato non significa nulla, è come mischiare pere con mele: vaccinato con che cosa, quando, quante volte?”.
“È sbagliato – aggiunge – a livello di comunicazione parlare di terza o quarta dose. Come ho più volte detto, non dobbiamo arrivare a cappuccino, cornetto e vaccino. Guai a dare questa sensazione! Meglio dire che ogni anno, soprattutto chi appartiene a categorie fragili o esposte, dovrà fare un richiamo con un vaccino un po’ diverso da quello precedente, esattamente come gli anziani che ogni autunno offrono il braccio a un’iniezione anti-influenzale. Vi sono consolidati studi che dimostrano chiaramente come questa malattia sarà stagionale con richiami annuali fino a quando, come accaduto con altri, non scomparirà del tutto”.
Vaccini a parte, conclude Vaia, “sulle cure oggi siamo molto avanti: i monoclonali, se utilizzati per tempo, risolvono il problema in altissima percentuale, più del 95 per cento. Poi adesso stanno arrivando quelli di seconda generazione, ideati dal professor Rappuoli a Siena, e che stiamo sperimentando anche noi allo Spallanzani e saranno prodotti in Italia, qui nel Lazio: stiamo valutando di usarli anche in funzione preventiva su chi non ha risposto al vaccino e risulta poco protetto secondo gli esami anticorpali”.