(Adnkronos) – Una persona su due con Hiv rivela la propria condizione positività al virus solo all’equipe sanitaria dalla quale è seguita. E sono le persone più clinicamente fragili quelle che faticano a parlare del loro status di Hiv al di fuori del contesto sanitario, evidenziando come l’auto-stigma, conseguenza della discriminazione, sia un problema trasversale e che necessita di essere indagato proprio da chi circonda le persone con Hiv, in primis medici e infermieri. E’ quanto emerge dai risultati di un’indagine presentata all’Italian conference on Aids and antiviral research (Icar) 2022, in corso a Bergamo.
L’auto-stigma rappresenta un fattore di rischio importante correlato a esiti negativi sulla salute. Nello specifico, la mancanza di rivelazione del proprio stato di positività all’Hiv può rappresentare un buon indicatore surrogato di auto-stigma. I risultati presentati quest’anno, riguardanti un campione di 531 persone con Hiv, rientrano nell’indagine nazionale che ha coinvolto i centri della coorte ‘Icona’, con il sostegno delle associazioni di pazienti e il supporto di ViiV Healthcare. Alcuni risultati preliminari erano stati illustrati lo scorso anno, e le evidenza emerse quest’anno pongono l’accento su come sia importante non ignorare tutti gli aspetti di salute e socialità della persona con Hiv, in quanto connessi allo stato di benessere o malessere.
L’indagine – riferisce una nota congiunta di Fondazione Icona e ViiV Healthcare – ha dunque evidenziato che il 48% (257 persone) ha rivelato a qualcuno (quindi oltre l’equipe sanitaria che la prende in carico) lo stato di Hiv-positività, contro il 52% (324) che non lo ha fatto. Non si è riscontrata alcuna differenza statisticamente significativa tra questi due gruppi in merito al carico di trattamento e malattia, tuttavia la diagnosi recente, la maggior compromissione immunologica e la fase iniziale del percorso terapeutico sembrano caratteristiche più legate al timore di parlare agli altri della propria condizione. In particolare, si è visto che queste sono anche quelle persone che chiedono di parlare con l’equipe sanitaria di altri argomenti di salute oltre l’Hiv e che desiderano avere anche informazioni sulle nuove opzioni terapeutiche.
Nessuna particolare differenza sullo stato di salute auto-riportato tra chi fa outing per Hiv e chi non lo fa. Mentre colpisce – riferisce ancora la nota – come la mancata rivelazione dell’infezione da Hiv al di fuori dell’ambiente sanitario interessi particolarmente le persone con Hiv più fragili come mostra l’associazione indipendente con bassi Cd4, evidenziando come l’auto-stigma, conseguenza della discriminazione, sia un problema trasversale e che necessita di essere posto all’attenzione di chi circonda (sanitari e non) le persone con Hiv; inoltre, le persone più immunocompromesse probabilmente sentono maggiormente il peso della infezione, che nelle loro condizioni può esitare in malattia grave.
“La presa in carico delle persone con Hiv non può più prescindere dal considerare anche il vissuto della persona in merito alla malattia stessa per definire gli interventi”, sottolinea Antonella Cingolani, università Cattolica S. Cuore, Fondazione Policlinico Gemelli, Irccs, di Roma. “Gli aspetti di socialità, quindi di rivelazione o meno della Hiv-positività, costituiscono un buon indicatore per allertare il clinico e l’equipe sanitaria su sostegni e proposte di interventi specifici”.
“Si tratta di dati che, pur con i limiti dell’indagine che abbiamo sempre esplicitato, offrono un importante spunto per costruire altri progetti di ricerca che mirino a fotografare e promuovere nuovi interventi di salute sempre più mirati”, spiega Alessandro Tavelli, Study coordinator di Fondazione Icona e data manager dell’indagine, di Milano. “La rete Icona e la collaborazione con le organizzazioni di pazienti – conclude Antonella D’Arminio Monforte, Asst Santi Paolo e Carlo, Milano e presidente di Fondazione Icona – ci consentono un osservatorio privilegiato: cercare di attenuare il più possibile il già difficile contesto di fragilità clinica è un dovere per la rete di clinici e associazioni”.