(Adnkronos) – Quando è nata, 54 anni fa a Kiev, il nonno stava leggendo Giovanna d’Arco e in onore dell’eroina francese l’ha fatta chiamare “Zhanna”, ma da due settimane, da quando è arrivata a Roma dopo una lunga e travagliata fuga dalla guerra, lei si presenta con l’italianizzato “Gianna”. Lo ha fatto anche oggi nel primo giorno di lavoro a Roma, come mediatrice culturale e interprete nelle case della Fondazione per l’Infanzia Ronald McDonald, che ospitano bimbi malati con le loro famiglie, cinque delle quali provenienti dall’Ucraina. “Sono molto contenta di rendermi utile. Quando ho deciso di venire in Italia la mia intenzione era anche quella di poter essere utile ai miei connazionali, dato che parlo italiano”, racconta all’Adnkronos Gianna/Zhanna Valevsky, che fino a un mese fa a Kiev era manager in un’azienda internazionale di allestimento fiere e lavorava tra le altre per le manifestazioni di Bologna e Milano.
“Ho sempre lavorato con l’Italia, che nel mio cuore considero il mio Paese, ovviamente dopo l’Ucraina”, dice la 54enne, che nonostante la passione per la Penisola e in particolare per la capitale, dov’era stata in passato due volte come turista, non riesce a non pensare ai fratelli rimasti a Kiev in attesa di venire richiamati dall’esercito: “Per quanto sia bella Roma, nessuno di noi profughi va a fare visite turistiche, la nostra mente e il nostro cuore sono sempre in Ucraina. Con parenti e amici rimasti lì, distrarsi è difficile”.
Nemmeno la decisione di lasciare il suo Paese è stata presa a cuor leggero. “La mattina del 24 febbraio mi hanno svegliato dei suoni strani, ma non riuscivo a capire cosa fossero. Poi ho sentito i vicini di casa che gridavano e sono uscita sul pianerottolo”, racconta Zhanna, che abita nella parte nord di Kiev, “a meno di 100 chilometri dal confine bielorusso”. La 54enne, insieme al resto dei condomini, è corsa in cortile e poi nel rifugio sotterraneo del palazzo. “All’inizio nessuno pronunciava la parola ‘guerra’. Credevamo che i russi volessero bombardare per fare paura alla gente, ma nessuno si aspettava quello che vediamo adesso”, dice.
Dopo il primo giorno, Zhanna si è trasferita dalla migliore amica e poi con lei in campagna da parenti, dove “in una piccola casa eravamo tantissimi, adulti, bambini, cani, gatti, c’era persino un pappagallo”. Poi dopo tre giorni il ritorno a Kiev, “dove si cominciavano a vedere passare i carrarmati ucraini e c’erano tantissimi posti di blocco. Ogni giorno che rimanevo lì, vedevo sempre più segni di guerra. La gente partiva e io non sapevo cosa fare. Ti dicevano di andar via, perché nessuno sapeva cosa stava per succedere”. E così il 4 marzo, otto giorni dopo l’inizio del conflitto, Zhanna ha deciso di partire. Con lei altre tre donne, mai viste prima: una 68enne, sposata da tanti anni con un italiano, e un’anziana accompagnata dalla figlia che fino al giorno della partenza era ricoverata all’ospedale cardiologico di Kiev.
L’appuntamento alla stazione, con l’obiettivo di salire su un treno per Leopoli. “Siamo arrivate alle 2 del pomeriggio, ma c’era moltissima coda. Sono partiti quattro o cinque treni senza che noi riuscissimo a salire. Eravamo disperate, ormai convinte di dover aspettare fino alla mattina dopo, quando alle 21 ci siamo prese per le mani e abbiamo recitato insieme il ‘Padre nostro’. Dieci minuti dopo la preghiera, è stato annunciato un treno non previsto in arrivo al binario dove eravamo noi”, racconta Zhanna, svelando come la fede sia stata la sua migliore compagna di viaggio.
“Credere aiuta molto in queste situazioni. Io continuo a ripetermi che in caso di guerra, ma anche di altri disastri, la prima cosa da fare è riconoscere la situazione e avere la forza di andare avanti, perché è inutile stare a piangere su un passato, in cui non si può tornare. Dobbiamo vivere nel presente e pensare a come dare il nostro meglio per non far ripetere queste cose, che nel XXI secolo non dovrebbero mai succedere”, conclude.