Ucraina, stupri di guerra già visti in Cecenia: così li raccontava Anna Politkovskaja

(Adnkronos) – “Il meccanismo che Putin ha adottato con la Cecenia è lo stesso che sta adottando con gli ucraini: polverizzare il Paese, considerando tutti dei terroristi. In questo modo, anche gli stupri vengono giustificati”. Lo ha dichiarato all’Adnkronos Andrea Riscassi, giornalista Rai, autore dello spettacolo “El’sa K.” (regia di Alessia Gennari), un’opera teatrale che narra la storia di El’sa Kungaeva, 18enne cecena rapita, stuprata e uccisa nel villaggio di Tangi-Chu, la notte tra il 26 marzo e il 27 marzo 2000, proprio quando Vladimir Putin venne eletto la prima volta presidente.  

Una coincidenza in una vicenda che diventò ben presto un caso politico, grazie anche al racconto che ne fece la giornalista di Novaja Gazeta Anna Politkovskaja, che seguì tutte le udienze del processo, fino a quando, nel luglio 2003, il colonnello russo pluridecorato Juri Budanov venne condannato a dieci anni di carcere per il sequestro e l’omicidio della ragazza. Una sentenza che sorprese, dopo anni in cui il colonnello, nonostante fin dal 27 marzo 2000 avesse ammesso di aver ucciso El’sa, veniva dipinto dall’opinione pubblica russa come un martire ingiustamente perseguito. 

“Il caso Budanov – scrive Politkovskaja nel suo libro ‘La Russia di Putin’ – era assurto a banco di prova della nostra società: i soldati e gli ufficiali che ogni giorno in Cecenia uccidono, saccheggiano, torturano e stuprano sono dei criminali comuni o dei criminali di guerra? O sono, piuttosto, paladini inflessibili autorizzati all’uso di qualunque mezzo in una guerra globale al terrorismo, dove il fine della salvezza del genere umano giustifica i mezzi a cui si ricorre?” 

Per legittimare il sequestro e l’omicidio di El’sa, Budanov raccontò che si trattava di una cecchina cecena, responsabile della morte di alcuni ufficiali del suo reggimento, anche se non furono mai trovate prove del fatto che la 18enne fosse legata a formazioni terroristiche, né che il colonnello avesse motivo di sospettarlo.  

Descritta dal padre al processo come una “ragazza molto riservata, laboriosa, tranquilla, onesta e brava”, El’sa la sera del 26 febbraio 2000 sta badando ai quattro fratelli minori, quando poco dopo mezzanotte arriva in casa una pattuglia di soldati russi armati di kalashnikov, l’avvolge in una coperta, la carica su un veicolo militare e la porta all’accampamento, nella stanza di Budanov. Il colonnello fa uscire gli ufficiali e dà loro disposizione di restare nei paraggi e di non far entrare nessuno nell’alloggio. Due ore più tardi li richiama: El’sa è morta strangolata. Il suo corpo, privo di qualsiasi indumento, giace supino sulla branda. Il colonnello, che si fa trovare in mutande, dà ordine di portarlo via e di seppellirlo. 

Il cadavere venne riesumato il 28 marzo e portato al battaglione sanitario, dove fu eseguita l’autopsia. Oltre alla morte per asfissia, l’esame rivelò che, mentre era ancora in vita, El’sa era stata percossa e stuprata. Politkovskaja nel suo libro descrive nel dettaglio i segni lasciati dalle violenze sul corpo della 18enne. “La pagina più rivoltante, più vile e più sporca di tutta questa storia. Scavarvi – spiega la giornalista – è disgustoso, ma necessario, per capire che cosa accadde davvero in Cecenia, oltre le fanfare della menzogna e della propaganda ufficiale”. 

Durante il primo processo a Budanov – racconta Politkovskaja – “l’opinione pubblica era tutta ‘pro Budanov’, così come le alte sfere del Ministero. Persino il pubblico ministero si espresse in favore dell’imputato”. Con udienze tese “non alla ricerca dei colpevoli e degli innocenti, ma del modo per assolvere Budanov da ogni sua colpa”. 

L’espediente per farlo fu clinico: una perizia psichiatria, la terza, ribalta il risultato delle prime due, stabilendo che Budanov era incapace di intendere e di volere nel momento in cui aveva ucciso El’sa. Quanto allo stupro, mancando un esame istologico dei tessuti della vittima (nel contesto di guerra non erano stati prelevati campioni, che non si sarebbero potuti conservare) una “perizia ad hoc” – come la definisce la cronista russa – stabilisce che “le lacerazioni dell’imene e del retto sono da ritenersi postume”. Quindi “qualcuno aveva infierito sulla ragazza, ma non Budanov, che dopo averla uccisa si era addormentato”. 

E così in primo grado il colonnello viene assolto. A marzo 2003, però, il Collegio militare della Corte Suprema russa annulla inaspettatamente la sentenza e ordina di celebrare un nuovo processo, che riparta dall’istruttoria. Il giudice, il colonnello Vladimir Bukreev, ammette a deporre i testimoni della parte lesa. Una nuova perizia psichiatrica confuta le conclusioni della terza e Budanov viene condannato. Non per lo stupro, però.  

“I loro sforzi erano valsi a rimuovere una macchia lucida dall’uniforme dell’esercito russo. Dalla giacca, forse, ma non dai pantaloni, non dalla patta, dove resta a tutt’oggi. Perché la storia non è un referto su commissione. E nel nostro Paese siamo abituati a riscriverla, la storia”, osserva Politkovskaja, dicendosi convinta “che prima o poi accadrà anche per la seconda guerra cecena e per il processo Budanov. E allora verrà a galla anche la macchia sui pantaloni del colonnello”.  

Due anni dopo aver dato alle stampe “La Russia di Putin”, il 7 ottobre 2006, Politkovskaja è stata uccisa. Stesso destino è toccato, nel 2009, all’avvocato della famiglia Kungaeva, Stanislav Markelov, assunto dall’associazione Memorial. Anche il colonnello Budanov, dopo essere uscito anticipatamente dal carcere, nel giugno 2011 è stato ammazzato per strada a Mosca. 

Se i protagonisti del “caso Budanov” – come venne chiamato allora in Russia – non possono più parlare, i personaggi scritti da Andrea Riscassi possono continuare a farlo per loro. Con massacri e violenze contro i civili ucraini a rendere sempre più attuale ciò che avvenne in Cecenia, l’autore, insieme alla regista Alessia Gennari, sta pensando di riportare in scena il dramma di “El’sa K.”, un dialogo immaginario e tutto al femminile, tra la giornalista e la 18enne, nel “tentativo – spiega Riscassi – di denunciare come nelle vicende russe le prime a pagare alla fine siano sempre le donne”.