(Adnkronos) – “A Mariupol si rischia una catastrofe epidemiologica. A marzo, in ogni cortile c’è stato un cimitero. Le temperature allora erano sottozero ma adesso in città fa caldo, e non tutte quelle tombe sono state trasferite nelle fosse comuni. Il governo sta cercando di seppellire i corpi, ma non si riesce a far fronte. In più non c’è acqua, quella che c’è è inquinata e ci sono in giro animali randagi. Il rischio di una epidemia di colera è altissimo”. A dirlo all’Adnkronos, in un’intervista esclusiva e toccante, è Yevhen Tuzov, attivista di Mariupol che dall’inizio della guerra si è occupato dei rifugiati della città sotto assedio, accudendone insieme ad un team oltre seimila, ed ora ha approntato un campo di accoglienza a Dnipro.
“Tutte le persone che sono rimaste sconvolte da Bucha o Irpin, sappiano che quando si potrà entrare a Mariupol si scoprirà davvero quello che è successo lì resteranno scioccate -dice Tuzov- Per intenderci, Bucha ha le dimensioni dell’acciaieria di Azovstal, Mariupol è molto più grande e il livello di distruzione è stato massiccio”. Al momento, spiega l’attivista, “non c’è ancora l’acqua centralizzata. Quella che c’è è l’acqua dei pozzi, dove passa la falda dei sotterranei e viene rilasciato l’effluvio dei corpi che marciscono. E’ pericolosissimo, si può solo immaginare cosa succederà tra qualche settimana”.
Da circa un mese, Yevhen ha creato un centro di accoglienza a Dnipro in una palestra, “dove ho recuperato dei materassi e mi sono accordato con un ristorante per i pasti”, ci spiega. E racconta, su tutti, un episodio accaduto a Mariupol che lo ha colpito per sempre. “Un giorno è stato portato nel rifugio che gestisco un neonato di soli dieci giorni, avvolto in un giubbino. Era tanto piccolo che, quando l’hanno appoggiato sulla panchina, stava per essere schiacciato da un anziano che voleva sedersi e non l’aveva visto. Era sporco di fuliggine, perché era stato colpito da una bomba incendiaria lanciata contro il suo palazzo in fiamme. Dopo qualche giorno è stato male. Lo abbiamo portato in ospedale schivando le bombe. Dopo, abbiamo saputo che in quell’ospedale c’era una donna arrivata dallo stesso indirizzo del bimbo…e abbiamo scoperto che era la madre. Nell’incendio erano morti il marito e gli altri figli, e lei si è potuta riunire con il suo bambino appena partorito”.
L’attivista ucraino lancia un accorato appello alla comunità internazionale. “L’attenzione verso Mariupol e l’Ucraina sta calando fortemente. La gente è stanca di sentire parlare della guerra, vuole vivere in pace e comincia ad agire come si fa con i barboni per la strada, si gira dall’altra parte -scandisce Yevhen all’Adnkronos- Stiamo ricevendo meno aiuti umanitari. La gente si sta dimenticando di noi”. Facendo le ricerche in rete “ho visto che l’attenzione verso i militari di Azov ora è la stessa di quando Will Smith ha dato lo schiaffo a Chris Rock agli Oscar. Se il mondo pensa che tutto questo possa finire si sbaglia, toccherà a tutti in un modo o nell’altro”.
L’attivista chiarisce: “Se un bullo viene a casa tua e ti ruba il portafoglio e ti usa violenza, nulla gli impedisce di fare lo stesso a casa di un altro. Italia, Francia, Germania, dovrebbero tenere alta la soglia di attenzione”. L’attivista, nato e cresciuto a Mariupol, dove “conosco tutti. Ero allenatore di una squadra nazionale di lotta libera”, ci racconta, spiega cosa prova nel vedere la sua città in queste condizioni. “Cosa prova un figlio che vede i corpi distrutti del proprio padre e della propria madre? Cosa sente un padre quando vede il corpo dilaniato del proprio figlio? A questo si può paragonare quello che provo io. E’ stato distrutto tutto quello che amavamo. Io sono Mariupol”.
E conclude con un auspicio: “Cosa vorrei ora? Vorrei che si costruisse una nuova Mariupol e quella che c’è restasse come una ‘città museo’, dove fosse obbligatorio per tutti gli studenti venire a visitare gli orrori che ha subito. E che ognuno potesse immaginare che dietro quelle finestre distrutte, un tempo, c’era la vita. In modo tale che nessuno, nessuno possa mai più fare una guerra”.
(di Ilaria Floris)