Angelo di nome e di fatto. Era un uomo qualunque, un tipografo di ordine sarda, una persona straordinariamente comune, eppure quella maledetta notte – fra venerdì 12 e sabato 13 giugno del 1981 – dopo aver appreso di quella vocina terrorizzata che usciva strozzata da un budello interno alla campagna di Vermicino (a ridosso della periferia ad est della Capitale), non ci pensò due volte a sacrificarsi.
Quel maledetto pozzo artesiano, lasciato incustodito nel mezzo di un prato, aveva inghiottito il piccolo Alfredino Rampi già da oltre 24 ore.
I soccorsi, numerosi, per quanto generosi non sapevano come intervenire (di lì nacque infatti l’intuizione di istituire la Protezione Civile, attrezzata per ogni tipo di evenienza), se non calando ‘qualcuno’ per cercare di afferrare il piccolo di 6 anni. Quel buco nero, che aveva un diametro di poco più di 30 centimetri, sprofondava per decine di metri nelle buie viscere di un terreno fangoso (inizialmente si calcolarono 36 metri). Altre persone, due speologi e due volontari avevano provato a calarsi ma senza successo.
Non c’era tempo da perdere, evitando di allargare il pertugio per non creare frane interne, i soccorritori pensarono di scavare attraverso una sorta di ‘carotaggio’, un tunnel parallelo dal quale poi raggiungere il bimbo, ma il macchinario, reperito al Nord d’Italia, sarebbe giunto molte ore dopo.
Così, cercando di ‘rassicurare’ la sfortunata creatura dall’esterno con un altoparlante, e mandando ‘ossigeno’ attraverso una sorta di sonda dai vigili del fuoco (comandati dall’ing. Pastorelli), si pensò nel frattempo di tentare l’ennesimo salvataggio disperato, calando qualcuno altro imbracato dall’alto.
Oltretutto faceva freddo, figuriamoci quanto a 60 metri sottoterra.
Come detto, il pozzo era stretto, ‘fatalità’, proprio a misura di bambino. Il tipografo, fra quanti accorsi intorno al maledetto buco, a dispetto dei suoi 37 anni, aveva un fisico minuto, gracile: non esitò un istante, offrendosi subito come volontario. Il tempo di assicurarlo ad una robusta fune, e per Angelo Licheri (che scelse di farsi calare in mutande e canottiera per ridurre l’attrito) e l’Italia intera, si consumarono i 45 minuti più tragici mai vissuti in ‘diretta televisiva’ (una ‘vergogna’ a parte fra l’altro quella ‘diretta tv’).
Angelo riuscì a raggiungere Alfredino, gli parlò, anche se ormai il piccolo era rantolante. Cercò di rassicurarlo, poi si dimenò cercando di imbracarlo con una cintura, ma questa si riapriva. Tre tentativi andarono a vuoto. Nel frattempo i minuti la sotto sembrano volare. Era stato stimato che in quella posizione, l’uomo non avrebbe potuto resistere per più di 25 minuti. Ma Angelo resisteva: Alfredino era lì, con le gambe strette contro il petto. Si disperò, provò ad alzarlo dalle ascelle poi, per un’infinità di volte, tentò di afferrargli il braccino, ma come fosse un’anguilla dispettosa, per via della fanghiglia che lo ricopriva, l’arto scivolava via dalle sue generose mani. Più volte urlò “L’ho preso” ed altrettante imprecò perché il bimbo ri-scivolava via. Oltretutto, sempre per via del terreno argilloso, ogni volta che Alfredino si muoveva, scendeva ancora più giù.
Nel frattempo, con l’allora Presidente Sandro Pertini in testa, nell’area circostante al luogo della tragedia, erano andate via via assiepandosi qualcosa come 10mila persone. Tutti a fare il tifo per Alfredino. Passarono 45 minuti, quando i soccorritori capirono che la situazione era pericolosa anche per il generoso Angelo Licheri. Il tipografo sardo riemerse infatti spossato fisicamente (fu ricoverato per due settimane in ospedale) ma, soprattutto, distrutto psicologicamente: in un lago di lacrime, raccontò di aver pulito il visino del bimbo dal fango, e di avergli parlato a lungo per rassicurarlo…
Più volte, in occasione della tragica ricorrenza, intervistato dai media, Angelo ripeteva di non sentirsi un eroe ma “un uomo che ha provato a salvare un bambino”. Confessò anche che “A Vermicino ci sono tornato chissà quante volte, perché non sapevo come liberarmi di quel brutto sogno. Il pozzo alle spalle, e quando mi giravo c’era sempre quel buio, e mi svegliavo freddo come un morto…”.
Un ricordo terribile, che l’ha tormentato fino al suo ultimo giorno di vita, ‘scaduto’ ieri, a 77 anni, nella casa di riposo di Nettuno, dove era ricoverato da tempo.
Angelo infatti, gravemente malato di diabete, anni fa ha dovuto subire l’amputazione della gamba destra. Poteva però consolarsi nell’amore e le attenzioni della sua seconda moglie (la keniota Mary), e dei suoi tre figli .
Alla notizia della sua scomparsa, la presidente del Centro Rampi, Rita Di Iorio, ha voluto ricordo affermando che Angelo Licheri “E’ stato un simbolo, un volontario puro”. Un uomo “con il quale c’è sempre stato un rapporto molto stretto. Sapevamo che era malato da tempo e si può dire che ce lo aspettavamo da un momento all’altro. Ma è comunque un grande dolore, ha sofferto molto. Ci dispiace, lo abbiamo sempre stimato per il suo coraggio, era un volontario puro, un simbolo”.
Anche il presidente della Regione sarda, Christian Solinas, ha tenuto a sottolineare la figura di Angelo, “Un uomo umile e generoso, l’eroe della porta accanto, nel quale si incarnò la speranza di tutta l’Italia di rivedere sano a salvo Alfredino Rampi. Il suo esempio di altruismo e di eroica generosità ci rende orgogliosi come sardi e resterà vivo nei nostri cuori, così come il ricordo della piccola vittima della tragedia. Sono certo che Alfredino lo abbia accolto in Cielo, con quell’abbraccio che purtroppo, quel giorno, non fu possibile”.
I funerali avranno luogo nel pomeriggio alle 15, preso la parrocchia San Apostolo di Tre Cancelli a Nettuno.
Max