ESTERI

Striscia di Gaza, i razzi di Hamas e la risposta israeliana: settant’anni di guerra

In un mondo fatto di rincorsa al progresso e di univocità della storia, è raro vedere uno scontro che appare immutabile, salvo periodi di distensione, prove di accordi definiti quasi sempre “storici” e diverse alleanze, dalla metà del Novecento o addirittura dalla fine dell’Impero ottomano. La “questione palestinese” (o israeliana) si inserisce in questo contesto, fisicamente regionale, ma da sempre con un ruolo primario nello scacchiare geopolitico.

Guerra tra Hamas e Israele

Sono di queste ore gli ultimi bollettini di guerra. I bombardamenti tra Hamas e Israele hanno finora causato 53 vittime palestinesi, tra cui 14 tra donne e bambini. Secondo Wafa, agenzia di stampa palestinese, un ragazzo di 16 anni sarebbe morto a Tubas, Cisgiordania, durante uno scontro con i soldati israeliani. All’inverso sono sei le vittime israeliane, colpite dalla pioggia di razzi, la maggior parte dei quali fermati dall’Iron dome, la “cupola di ferro” di difesa dello Stato ebraico, finanziata dagli Stati Uniti e progettata da Iai e Raphael, lanciati dalla Striscia di Gaza verso Gerusalemme, Tel Aviv e altre città israeliane.

“Hamas sta per subire una botta che non si aspettava. Intensificheremo ancora la potenza e il ritmo degli attacchi contro Hamas e la Jihad Islamica a Gaza”, ha detto ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Fanno eco le parole di Benny Gantz, suo ministro della Difesa: “Siamo solo all’inizio, continueremo fino a quando sarà necessario”.

Ma perché Israele e Hamas, dopo quasi sette anni di “apparente tranquillità” sono di nuovo in conflitto? Per la cronaca in aprile, con l’inizio del Ramadan, la polizia israeliana ha allestito delle barriere nella zona della Spianata delle moschee, Gerusalemme Est, dove i palestinesi erano soliti radunarsi per l’Ifṭār, il pasto della sera consumato dai musulmani durante il mese di digiuno. Il divieto di radunarsi è stato inteso dai palestinesi come una limitazione delle loro libertà, mentre dagli israeliani una misura per contenere la pandemia.

Ad accrescere la tensione, sfociata poi negli scontri nella moschea di al-Aqsa di lunedì 10 maggio, due eventi: la ricorrenza simbolica della conquista di Gerusalemme Est, occupata da Israele nel 1967 durante la guerra dei Sei giorni, e un fatto apparentemente minore, ovvero la contesa su Sheikh Jarrah, quartiere orientale di Gerusalemme.

Gli sfratti di Sheikh Jarrah

Proprio il 10 maggio, infatti, la Corte suprema israeliana doveva pronunciarsi sullo sfratto di alcune famiglie palestinesi a favore di un’associazione ebraica che acquistò i terreni nel 1867. Terreni venduti negli anni Novanta a un’organizzazione radicale religiosa di coloni israeliani. Temendo nuove violenze, la Corte ha poi rinviato di trenta giorni l’udienza. Ma la miccia era ormai accesa.

L’annullamento delle elezioni

A far da detonatore anche l’annullamento delle elezioni palestinesi, le prime dal 2006 e previste per il 22 maggio, rinviate dal leader dell’Autorità nazionale Abu Mazen. Secondo la versione ufficiale, le elezioni sono state annullate perché Israele di fatto non avrebbe permesso ai palestinesi di Gerusalemme di recarsi alle urne. Ma Abu Mazen potrebbe aver scelto di posticipare il voto per paura di una sconfitta della sua organizzazione, al-Fath, a favore di Hamas (i sondaggi davano Hamas al 27%, al-Fath 24%). Dalla guerra civile del 2007, al-Fath controlla la zona della Cisgiordania, Hamas la Striscia di Gaza. Una divisione che, nonostante i tentativi di riconciliazione, non ha mai permesso lo svolgimento di elezioni in 15 anni.

La comunità internazionale

Questo nuovo conflitto tra palestinesi e Israele, prevedibile con la cronaca delle settimane passate, si scontra con il processo di normalizzazione delle relazioni, portata avanti dall’amministrazione Trump con gli Accordi di Abramo, tra Tel Aviv e alcuni paesi arabi (Bahrein ed Emirati Arabi Uniti). Quella che doveva essere “un’alba di un nuovo Medio Oriente” di fatto lasciava i palestinesi “prigionieri nella loro terra”. Tutto cambia perché nulla cambi. Così come la comunità internazionale, riunitasi quest’oggi, per la terza volta in tre giorni, al tavolo del Consiglio di sicurezza dell’Onu per un incontro urgente.

Richieste di “cessate il fuoco” e “condanne di rito, però, non serviranno a dare quella svolta necessaria per una de-escalation. Nel vuoto di Washington e Bruxelles si è inserito, come spesso accade negli ultimi anni, Recep Tayyip Erdoğan. “La Turchia farà tutto ciò che è in suo potere per mobilitare il mondo intero, e soprattutto il mondo islamico, per fermare il terrorismo e l’occupazione di Israele”, ha detto nei giorni scorsi il presidente turco.

In tale contesto Benjamin Netanyahu, leader in bilico, sfrutta l’occasione provando a rimanere saldamente al suo posto. Hamas e Jihad islamica mettono in luce la debolezza di al-Fath mentre Erdogan dimostra che, nonostante gli sforzi internazionali di nascondere la “questione palestinese” sotto al tappeto, questa può essere ancora determinante per gli equilibri del mondo arabo.

Mario Bonito