Ripresa economica, modernizzazione del Paese e contrasto alla Cina. Si può riassumere così il maxi-piano da 2.000 miliardi di dollari presentato da Joe Biden a Pittsburgh, Pennsylvania, per far rivivere agli Stati Uniti il dinamismo e i fasti economici degli anni Sessanta. Il piano, di durata decennale, è stato chiamato Build Back Better: Costruire meglio. Per questo i soldi saranno destinati in investimenti pubblici nelle grandi opere: 650 miliardi nelle infrastrutture dei trasporti (strade, ponti, ferrovie, aeroporti, trasporto pubblico e veicoli elettrici). Altrettanti miliardi sono previsti per le “infrastrutture domestiche”: rete elettrica, acqua pulita, banda larga anche nelle zone rurali e alloggi per chi vive in povertà. Poco meno di 600 miliardi verrebbero investiti nella ricerca; 400 miliardi nella care economy, con stanziamenti per i più fragili: anziani, bambini, disabili, assistenza domiciliare.
La scelta del team Biden-Harris di presentare il programma a Pittsburgh, nella storia americana il centro dell’acciaio e del carbone, non è un caso. Nelle elezioni del 2016 il declino della rust belt, zona approssimativamente compresa tra la Pennsylvania e il Michigan, fu teatro del successo del populismo di Donald Trump tra i lavoratori bianchi. Oggi, secondo l’interpretazione di Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, Biden prova a riconquistare la regione “con una rilevante dose di populismo di sinistra”. Funzionerà? L’effetto nel breve periodo “sarà positivo”, spiega il giornalista, come dimostrato anche dall’euforia sui mercati e una Wall Street “da record”, ma è probabile anche che nel lungo periodo ci siano ripercussioni. Colmando in ambito economico, comunque, gli spazi vuoti lasciati da Trump, per Gaggi la sfida dei democratici è sfidare i conservatori sul terreno dei diritti (questione razziale, possesso delle armi ecc.)
Biden si attende al Congresso, che dovrà approvare il piano, un sostegno “bipartisan”. Ma per finanziare le “grandi opere” è necessaria un’espansione del debito pubblico, l’innalzamento della pressione fiscale sugli utili societari delle grandi aziende dal 21 al 28% e l’aumento della tassazione sui profitti guadagnati all’estero dalle multinazionali dal 13 al 21%. Misure invise ai repubblicani più critici che ne segnalano le conseguenze negative nel lungo periodo. Tali provvedimenti, da approvare in un disegno di legge successivo, sono stati accostati dalla stampa al New Deal di F. D. Roosevelt negli anni Trenta e al Great Society di L. Johnson negli anni Sessanta.
All’epoca andava in scena la corsa allo spazio. Oggi per vincere la “guerra commerciale” dei ruggenti anni Venti con Pechino, che spende e spande in tutto il mondo, agli Stati Uniti potrebbero non bastare poderosi investimenti nelle infrastrutture. Ma sarebbe un primo passo, come evidenziato da Federico Rampini su Repubblica, per mantenere (o riconquistare?) il primato nel settore delle tecnologie all’avanguardia e delle energie rinnovabili.
Mario Bonito