Esplode un vero caos mediatico in Brasile: chat private, pubblicate da un noto giornale di inchiesta, farebbero emerge dei rapporti non certamente ortodossi tra giudice e procuratore e, di conseguenza delle forti ombre circa la legalità dei procedimenti legali che hanno portato alla condanna dell’ex presidente del Brasile Lula, oltre che del più grande terremoto politico e di corruzione che si sia mai conosciuto nel grande paese sudamericano.
Si tratta a tutti gli effetti di un grande caso e caos mediatico: e travolge, o almeno promette di farlo, tutto quello che si era detto circa il famoso filone di inchiesta “Lava Jato“, la più grande operazione sulla corruzione mai conosciuta in Brasile.
Lava Jato, che fatte le dovute proporzioni ricorda la Tangentopoli italiana, tuttavia rischia di essere riconsiderata, riscritta, ripensata: soprattutto, rischia di essere inquinata da un forte alone di dubbio relativo alla liceità dell’intera inchiesta. Perché?
Il motivo risiederebbe in un rapporto di dipendenza illegale (o comunque controverso) e di indirizzo programmatico che si sarebbe inscenato e prodotto tra i pm e il giudice che avrebbe dovuto approvare o respingere le loro richieste.
Quello che viene messo in dubbio in questo momento è la legittimità e l’obiettività e soprattutto l’imparzialità dell’intero processo. Non si tratta, del resto, di un pur rilevante procedimento penale o civile privato, ma del più grande terremoto che ha smottato le fondamenta delle istituzioni brasiliane, facendo venire a galla un sistema di tangenti e di corruzione che stava intossicando industria, società civile e soprattutto la politica di altissimo livello.
Uno scandalo di immani proporzioni, quello rivelato da Lava Jato che aveva prodotto una rivolta, generato il famoso della presidente eletta in modo democratico e infine portato all’incriminazione di Lula, poi arrestato.
Ebbene, pare che dietro il carcere del padre della sinistra del Brasile ci sia in realtà un percorso poco chiaro e particolarmente fosco in termini di legalità e correttezza procedurale: a fare emergere i dati è stato The Interceptor, un giornale on line che si dedica al giornalismo investigativo.
Il media ha messo in rete decine di screenshot relativi agli scambi, piuttosto fitti, di messaggi sulla messaggeria protetta Telegram tra l’allora giudice Sergio Moro (oggi ministro della Giustizia del governo Bolsonaro) e il capo dei sostituti procuratori di Lava Jato, Deltana Dallagnol.
Aggiornamento ore 7,34
L’inchiesta del The Interceptor ha fatto venire a galla uno scandalo che potrebbe deprimere le intenzioni di rilancio politico – sociale del Brasile. Secondo quanto emerge, ci sarebbero colloqui alla vigilia delle incriminazioni e Moro avrebbe spinto i colleghi della Procura a incentivare alcuni filoni di indagini al posto di altri scegliendo anche i momenti per emettere certi provvedimenti. Dallagnol avrebbe, d’altro canto, condiviso con lui le iniziative.
Si tratta, emerge, di dialoghi brevi ma palesi che anticipavano, pianificandoli a quanto pare, i procedimenti di immediata applicazione. Fino a quello boom: l’incriminazione di Lula per l’attico di Guarujá che procurò una condanna a 12 anni e 1 mese di carcere. Il 7 dicembre 2015, Moro avrebbe, secondo l’inchiesta, scritto a Dallagnol: “Una fonte mi ha informato che la persona di contatto sarebbe stata infastidita dal fatto di essere stata invitata a redigere bozze per il trasferimento di proprietà di uno dei figli dell’ex presidente. La persona credo sia disposta a fornire informazioni. Sto andando avanti. La fonte è seria”.
“Grazie!!”, gli risponde il procuratore, “ci metteremo in contatto”. E ancora. “Sarebbero dozzine di immobili”, avrebbe replicato con enfasi, Moro.
La fonte non avrebbe parlato, ma le interconnessioni sarebbero continuate. I pm avrebbero spinto verso la possibilità di un esposto anonimo per convocare Lula. Moro potrebbe poteva dire no o non esprimersi, ma fece tutt’altro: appoggiò la mozione. “Meglio formalizzare”, avrebbe suggerito negli interscambi.
Il feeling tra accusa e giudice terzo si corrobora poi, stando all’inchiesta, il 13 marzo del 2016 quando la piazza invoca la caduta della Rousseff. Moro contatta a Dallagnol: “Il Congresso va ripulito”. Dallagnol risponde: “Congratulazioni per l’enorme supporto pubblico”.
E infine, l’azione considerata al confine con la legalità. Il giudice Moro rende pubblica la telefonata, coperta dal segreto dell’indagine, nella quale la Rousseff suggerisce a Lula di farne il ministro della Casa Civile così da renderlo immune ad un possibile arresto. Dallagnol avrebbe domandato: “La decisione di renderla pubblica è confermata?”. Moro si sarebbe trincerato: “Qual è la posizione della Polizia federale?”. Dallagnol dalla sua, avrebbe chiarito: “Metterla in rete”. Insomma, un vero continuo intescambio.
Aggiornamento ore 10.31
Il caos in Brasile è alto a livello politico, giurisprudenziale e sociale. Le pubblicazioni dei dialoghi tra Moro e Dallagnol hanno creato a dir poco scalpore.
La pubblicazione delle chat private, intercorse per circa due anni, sono state accolte con ira da Sergio Moro. L’ex giudice ha criticato la cosa, denunciando l’intrusione di un hacker sulla memoria del suo cellulare indicando come lo avesse segnalato una settimana fa. Ma i vertici di The Intercept e i tre giornalisti investigativi autori dello scoop hanno chiarito come i files fossero da tempo in loro possesso, e che una volta analizzati e verificati sono stati pubblicati.
Si parla, in questo senso, di discussioni circa una presunta violazione della privacy che però avrebbe molto meno peso, complessivamente, rispetto alla criticità della questione.
Quella che viene fuori in effetti è la fitta collaborazione in un processo imponente e storico. Il punto è che Sergio Moro poteva parlare con i pm, ma i termini di questi colloqui sembrano andare al di là del ragionevole, tanto per incominciare. Sembra saltare il ruolo del giudice terzo, l’imparzialità di chi decide sulla base degli atti trasmessi da chi indaga e, spesso anzi le respinge o chiede chiarimenti. In questo caso invece ne concordava l’essenza, le linee d’azione, e suggeriva cosa fare e quando farlo.
Il processo in tal senso, perderebbe la sua indipendenza e la sua imparzialità. Lo stabilisce il codice etico dei giudici la stessa Costituzione. Lo stesso Sergio Moro diceva in una conferenza nel marzo del 2016: “Chi indaga e decide cosa fare è il pubblico ministero e la polizia federale. Il giudice è reattivo. Il giudice deve coltivare queste virtù passive. Mi infastidiscono le critiche infondate sul mio lavoro dicendo che in realtà sono un giudice istruttore.
Aggiornamento ore 13.11