“Io mi ritrovo nelle parole dette da Maria Falcone che ricorda che la legge sui pentiti è stata voluta anche dal fratello. Oltretutto a favore delle scarcerazioni si sono pronunciate diverse procure, con in testa il Procuratore nazionale antimafia. Insomma, è stata rispettata la legge”. A parlare, in una intervista all’Adnkronos, è Luigi Savina, l’ex vicecapo della Polizia, che oggi, da poco in quiescenza, continua a collaborare con il Dipartimento della Sicurezza. E’ stato lui ad arrestare, il 20 maggio del 1996, in contrada Cannatello, alla periferia di Agrigento, Giovanni Brusca, il ‘verru’, l’uomo che il 23 maggio di quattro anni prima spinse il bottone del telecomando che fece saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. All’epoca c’è il rispetto della legge. Era lui il dirigente della Squadra mobile, alla guida di oltre 250 uomini, tra cui anche il suo braccio destro, Claudio Sanfilippo, oggi questore a Sassari. E Renato Cortese, poi diventato questore di Palermo.
Savina, parlando dello sconcerto dei familiari delle vittime della strage di Capaci, per la scarcerazione di Brusca, dice: “Io sono legatissimo a Tina Montinaro”, la vedova del caposcorta di Falcone, “a suo figlio Giovanni”. “Antonio Montinaro – racconta – ha lavorato con me quando ancora dirigevo la Sezione Omicidi, però devo dire che i collaboratori di giustizia sono risultati determinanti nella distruzione di quella Cosa nostra che conoscevamo in quegli anni”.
Poi la memoria fa un passo indietro nel tempo e va a quel maggio del 1996. “Venti giorni prima del giorno dell’arresto- ricorda Savina – venne arrestato Salvatore Cucuzza, boss del mandamento di Palermo centro, il successore di Pippo Calò. E immediatamente decise di collaborare e ci raccontò che Giovanni Brusca e Cucuzza si erano incontrati. E che Cucuzza aveva fatto tenere a Brusca alcune schede telefoniche che noi intercettammo. Dunque da quel momento, per venti giorni, abbiamo ascoltato le telefonate di Brusca. La telefonia in Italia si stava evolvendo in quel periodo, dall’analogico al digitale, con le difficoltà di intercettare e localizzare il gsm. Tutti alla Mobile sapevano che stavamo cercando Brusca ma non era uscita una sola parola, da nessuno. Questa cosa mi rende fiero. E mi conferma l’assoluta affidabilità dei miei 250 uomini”. “Ricordo che una sera nascondemmo i nostri uomini nella valle dei Templi, c’era un concerto di Noa, e noi ci nascondemmo. Ritenevamo rischioso intervenire. La domenica raggiunsi Claudio Sanfilippo ma rientrammo, e aspettammo il giorno successivo”. Così fu escogitato uno strategemma che risultò vincente. “Usammo una marmitta forata, scassata – dice Savina – in maniera che facesse un rumore eccessivo. Ci nascondemmo in un capannone industriale e utilizzammo quattro furgoni, su cui c’erano decine di uomini. Alle 21 di sera Renato Cortese, sempre straordinario, anche da giovane, mi chiamò. Lui era nella sala operativa a Palermo. Eravamo in silenzio assoluto”.
“Poi, alle 21, il silenzio surreale. Non c’era nessun brusio. Immagini 200 persone in silenzio. Tutti con un unico scopo”. “Renato Cortese ci lanciò l’allarme – ricorda ancora Savina – il mio autista fece il segno di accendere i motori di una settantina di vetture nel capannone, qualche minuto dopo arrivò la moto con due accelerate, il rumore della moto si sovrappose alle voci. Cortese iniziò a gridare: “E’ lì, è lì!”. Un attimo dopo intervenimmo e catturammo Giovanni Brusca e il fratello Enzo”. Che cosa provò in quel momento Luigi Savina: “Una grande soddisfazione – dice – grazie a dei ragazzi straordinari che di giorno facevano gli investigatori e la sera andavano a vivere nei quartieri di Palermo, dalle loro famiglie. Brusca era il ricercato numero uno, dopo la cattura di Bagarella nel 1995 lui era l’amministratore delegato di Cosa nostra e Bernardo Provenzano il presidente”.
Poco tempo dopo la svolta. “Tramite la direttrice del carcere venne allertato il Procuratore capo di allora Giancarlo Caselli. Il magistrato fece chiamare me e Claudio Sanfilippo perché Brusca ci voleva incontrare – racconta Luigi Savina – Così ci andammo, era mezzanotte, raggiungemmo il carcere Ucciardone a bordo di un furgone della Polizia penitenziaria. E lui ci disse: ‘Voglio collaborare’, ma la nostra collaborazione era mirata ad avere qualcosa di immediato, cioè avere notizie dei latitanti”. Così iniziarono i colloqui investigativi e poi gli interrogatori con le prime rivelazioni di Brusca.
Ma cosa è rimasto oggi di quella Cosa nostra? “Quella mafia che conoscevamo è stata distrutta – dice Savina – o sono in carcere o sono deceduti, questo non significa che la mafia non sia pericolosa. Nel 2018 ho voluto partecipare, da vicecapo della Polizia, alla Festa della Polizia a Palermo, e ho ascoltato l’intervento del questore Cortese, che parlava della pericolosità di Cosa nostra”. (di Elvira Terranova)