Il dolore muscoloscheletrico diffuso da almeno tre mesi è il sintomo che più la contraddistingue, a cui si associano numerosi altri disturbi che possono persistere per tutta la vita. È la fibromialgia, sindrome ad andamento cronico di gran lunga più frequente nelle donne rispetto agli uomini, con un rapporto 5 a 1 e un picco di incidenza tra i 20 e i 50 anni, sebbene possa manifestarsi a qualunque età. “Colpisce circa 2 milioni di italiani, ma di loro si parla ancora troppo poco”, afferma Piercarlo Sarzi Puttini, direttore dell’Unità complessa di Reumatologia dell’ospedale Sacco di Milano.
“La fibromialgia – prosegue – è caratterizzata da dolore diffuso muscoloscheletrico, disturbi del sonno, fatica cronica, alterazioni neurocognitive e da molti altri sintomi, più o meno ricorrenti, come sindrome del colon irritabile e cefalea, che possono durare per sempre, con un impatto significativo sulla qualità della vita di chi ne è affetto”. Le cause della malattia, di cui molti hanno sentito parlare per la prima volta quando ha dichiarato di soffrirne la pop star americana Lady Gaga, non sono note. La predisposizione genetica, però, sembra rivestire un ruolo fondamentale “sia per la familiarità osservata – sottolinea Sarzi Puttini – sia per la presenza di vari polimorfismi genetici presenti nella regolazione del sistema nocicettivo. In aggiunta a questo substrato genetico, una varietà di meccanismi periferici e centrali dimostra di avere un ruolo nella comparsa della sintomatologia fibromialgica”.
“Esiste infatti – spiega -una interazione evidente tra fattori genetici, fattori ambientali (traumi fisici post incidenti d’auto, traumi di natura sessuale, malattie) e predisposizione individuale legata alla capacità di adeguarsi alle situazioni di stress cronico e agli aspetti psicologici (ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi e disturbo post-traumatico da stress). Tutto ciò causa modificazioni del sistema nervoso somato-sensoriale, che portano a una alterata soglia della percezione del dolore, e si esprime clinicamente con allodii, ovvero la percezione di una sensazione dolorosa in seguito ad uno stimolo innocuo, e iperalgesia, che consiste nel percepire uno stimolo doloroso come eccessivamente doloroso”.
Come se non bastasse, la diagnosi è un percorso a ostacoli. Il paziente infatti consulta molti specialisti prima di arrivare alla valutazione corretta. “I criteri diagnostici – ricorda Sarzi Puttini – sono stati originariamente definiti dall’American College of Rheumatology nel 1990 e comprendevano una storia di dolore cronico diffuso da almeno tre mesi e la presenza di almeno 11 su 18 tender points. Il riconoscimento della fibromialgia è complesso e richiede una figura esperta per la sua diagnosi, infatti, non esiste un biomarcatore e i criteri diagnostici 2010/2011 comprendono una serie di sintomi comuni anche ad altre malattie. Questi criteri ad oggi – dettaglia l’esperto – si basano su una valutazione che comprende 2 punteggi che si vanno a sommare: le aree dolorose (0-19) e la scala di severità dei sintomi (0-12)”.
Il paziente impara a convivere con la malattia, i cui sintomi nel tempo tendono ad attenuarsi. “Le coorti che hanno studiato i pazienti a lungo termine – ricorda Sarzi Puttini – evidenziano che circa il 15-20% può raggiungere una remissione clinica prolungata anche se la fibromialgia, di fronte ad eventi traumatici o a situazioni di stress prolungato, può riprendere con la stessa intensità dell’esordio. In alcuni casi si osserva un’alternanza di sintomi funzionali con intensità clinica differente (cefalea, colon irritabile, cistiti ricorrenti, astenia cronica, disturbi psico-affettivi). Pertanto, ancora non disponiamo di approcci terapeutici pienamente soddisfacenti” per il trattamento di questa sindrome, spesso associata a comorbidità. “Disturbi della sfera affettiva, affezioni gastrointestinali, obesità, che vanno valutati e trattati in maniera integrata per l’importanza che rivestono sulla sintomatologia fibromialgica”. In altri casi, si associa a patologie autoimmuni (artrite reumatoide, sindrome di Sjogren), neoplastiche e/o infettive che “occorre trattare spesso in maniera disgiunta dal dolore di tipo fibromialgico”.
“L’approccio terapeutico pertanto comprende un’ampia gamma di interventi, farmacologici e non, e per questo motivo deve essere studiata per il singolo paziente”. Sebbene non esistano farmaci totalmente efficaci, tuttavia la terapia farmacologica “è importante – precisa Sarzi Puttini – per il controllo della sintomatologia, per il dolore e per aiutare il sonno. Si prediligono antidepressivi (es. amitriptilina), antiepilettici (es. pregabalin), antidolorifici (es. tramadolo), analgesici/neurotrofici (es. L-acetilcarnitina), antinfiammatori e miorilassanti, in grado di agire sui meccanismi che innescano il dolore nel sistema nervoso centrale. Tra le novità l’utilizzo della cannabis terapeutica, particolarmente interessante anche se farmaco controverso, ma i risultati preliminari di alcuni studi sono piuttosto incoraggianti, soprattutto rispetto alla gestione del dolore e dei disturbi del sonno”. I farmaci, però, “da soli non sono sufficienti. Fondamentali gli approcci che sono in grado di affiancare, senza sostituire, le terapie farmacologiche convenzionali, tra i quali, agopuntura, spa-terapia, ozonoterapia, e tecniche mente-corpo (yoga, pilates, metodo Feldenkrais)”, conclude.