Una donna di 62 anni al primo episodio di rettocolite ulcerosa, che 4 mesi dopo il trattamento con steroide sistemico ha una ricaduta; una ragazza di 36 che era stata sempre bene dopo un episodio di pancolite 4 anni fa, e va incontro a una significativa recidiva sperimentando difficoltà a controllare la malattia con il cortisone; una 31enne in cura per rettocolite ulcerosa che scopre di essere incinta, interrompe parte dei trattamenti e il giorno dopo il parto va incontro a recidiva e, a seguire, anche al fallimento della terapia con anti-Tnf; e infine un’altra 30enne con malattia di Crohn da quando ne aveva 25, che passa attraverso diverse terapie e nel 2018 sviluppa una recidiva severa e deve fare i conti anche lei con la perdita di risposta al trattamento con anti-Tnf. Sono storie di Mici, malattie infiammatorie croniche intestinali.
Pazienti diverse, in gran parte giovani. Ognuna con le sue esigenze – la neomamma, la lavoratrice, la donna di età più avanzata che fa i conti al contempo con altre patologie – ma anche con qualcosa in comune: l’approdo alla terapia con l’anticorpo monoclonale vedolizumab, farmaco biotecnologico a selettività intestinale, già disponibile in formulazione endovenosa per il trattamento di pazienti adulti con colite ulcerosa o malattia di Crohn attiva da moderata a severa, e ora previsto anche nella nuova formulazione sottocutanea.
I casi clinici sono stati discussi durante l’evento ‘Made for freedom’, promosso da Takeda, da un gruppo di esperti – Fabrizio Bossa (Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo), Emma Calabrese (Università di Roma Tor Vergata, Roma), Flavio Caprioli (Policlinico di Milano), Marco Daperno (Ospedale Mauriziano di Torino), Fernando Rizzello (Sant’Orsola Malpighi, Bologna) – che hanno riflettuto sulla sfida di gestire le varie opzioni terapeutiche disponibili e adattarle alle caratteristiche di ciascun paziente.
Una riflessione che abbraccia anche la scelta di passare dalla modalità di somministrazione per infusione endovenosa a quella sottocute, esplorata riguardo a vedolizumab. Una scelta che per esempio Daperno avrebbe considerato per la sua paziente 36enne, e in generale “anche abbastanza precocemente per pazienti in cui un’infusione in più significa un altro giorno di lavoro perso”. Altro nodo analizzato: come ottimizzare la scelta delle terapie. “Avremmo bisogno di marcatori di malattia – evidenzia Calabrese – che permettano di capire al meglio come trattare i pazienti prima di dargli un farmaco”.
“Il fatto di avere terapie sottocute – fa notare infine Mariabeatrice Principi, Università degli Studi di Bari, moderatrice del confronto – sposta l’attenzione verso compliance”. E forse in questo, riflettono gli esperti, “ci potrebbe aiutare la telemedicina”.
“Anche nella malattia di Crohn come nella colite ulcerosa – rimarcano – il fatto di poter avere massima elasticità attorno alla situazione clinica del paziente, di poter iniziare con la terapia endovena, continuare sottocute, non escludendo un ritorno all’endovena se viene che il dubbio che il paziente non stia facendo il trattamento, è molto importante. Qui fa la differenza la massima flessibilità, la possibilità di accelerare e rallentare quando serve. E il monitoraggio è importante per poter modulare le modalità di somministrazione e sapere quando farlo”.