“Con la riforma del processo penale, appena firmata da Draghi e Cartabia e controfirmata a fatica dal M5S, si cerca – con un certo travaglio (lettera minuscola) – di aggiornare la nostra agenda in materia di giustizia. Impresa non facile. Infatti, c’è sempre qualcosa che torna, affiorando dal passato, nel cuore della nostra vita pubblica. Ed è chiaro che le difficoltà di oggi e forse anche di domani hanno qualcosa a che vedere con le controversie di ieri e ieri l’altro.
Per esempio, mentre si riparla di riforma, tornano i referendum sulla giustizia – e la questione diventa attuale senza essere del tutto nuova. Fu sul finire degli anni ottanta, per l’appunto, che venne celebrato il referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Voluta soprattutto dai socialisti, quella consultazione all’epoca fu la lontana progenitrice di quella per la quale in questi giorni stanno raccogliendo le firme, in inedita compagnia, radicali, leghisti e perfino qualche dirigente del Pd.
Quella volta il pronunciamento popolare fu, a grande maggioranza, a favore del principio per il quale dovesse essere il singolo magistrato, e non lo Stato, a rispondere di eventuali danni provocati da sentenze inique. Un pronunciamento che lasciava affiorare tutta la diffidenza dell’opinione pubblica di allora verso la magistratura -specie all’indomani dell’incresciosa vicenda di cui era stato vittima Enzo Tortora.
Di lì a pochissimi anni, quel clima si capovolse e quella diffidenza lasciò campo libero a sentimenti assai più benevoli. E anche a certi loro eccessi, spinti qualche volta fino a un tifo quasi da stadio. La magistratura milanese aprì il voluminoso fascicolo di Tangentopoli, offrendosi addirittura come un fattore di rigenerazione della nostra vita pubblica. E a Palermo straordinarie (e tragiche) figure come Falcone e Borsellino scavarono le nuove trincee dalle quali lo Stato avrebbe combattuto la mafia assai più risolutamente.
Naturalmente ognuna di queste storie andrebbe separata dall’altra e considerata a sé. E invece negli anni seguenti si scelse di fare di ogni erba un fascio, e la magistratura diventò, nel suo insieme, soggetto di un mito e oggetto di una contesa. Sull’onda delle grandi epopee di quella stagione, infatti, cominciò a prender corpo l’idea che la magistratura, tutta quanta, avesse compiti salvifici. Erano i giudici a scrivere la storia, a ripulire il paese, a redigere leggi, a fondare partiti. Insomma, a proporsi come un modello di civismo più largo delle loro funzioni -e anche, in qualche caso, delle loro virtù.
E’ in questo contesto che poi la rivelazione delle faide correntizie, delle cordate interne, delle vicissitudini del Csm, dei verbali dati in pasto ai giornali e via elencando, tutte queste cose insieme hanno finito per capovolgere ancora una volta il sentimento dell’opinione pubblica. Fino a ritorcere a quel punto contro la magistratura, considerata in blocco, le stesse diffidenze, gli stessi pregiudizi, gli stessi sospetti con cui a suo tempo era stata giudicata la classe politica, anch’essa considerata in blocco. Con l’effetto di mescolare torti e ragioni un po’ alla rinfusa, facendo oscillare di continuo quei due piatti della bilancia che della giustizia dovrebbero essere il simbolo.
Così oggi, intorno ai referendum in cantiere, si intrecciano una volta di più tutte le antiche questioni lasciate in sospeso. La separazione delle carriere, il funzionamento dell’organo di governo, la durata della prescrizione (nodo cruciale), l’atavica questione della responsabilità civile e via enumerando. Un fitto groviglio di questioni che il referendum propone ora di tagliare con affilata nettezza e che il ministro della giustizia Cartabia dovrà cercare piuttosto di continuare a sciogliere con sapiente – ma solerte – prudenza”.
(di Marco Follini)