Nel 2020 sono stati uccisi nel mondo cinquanta giornalisti, la maggior parte dei quali in Paesi non in conflitto. Sono numeri resi noti dalla relazione annuale di Report senza frontiere, un’organizzazione non governativa che promuove e difende la libertà di stampa e di informazione.
Da dieci anni il numero dei morti è in calo: 53 nel 2019, 80 nel 2018. Dal 2011 il totale è di 937 giornalisti uccisi. In aumento, però, le vittime nei Paesi non in guerra: 7 giornalisti su 10, circa il 68%, sono stati ucciso lontano da guerre. Inchieste su cartelli della droga, corruzione, criminalità organizzata e degrado ambientale sono risultate, purtroppo, le più rischiose per chi fa con coraggio questo mestiere.
Secondo Report senza frontiere, i Paesi più pericolosi sono: Messico, Iraq, Afghanistan, India e Pakistan. Maglia nera anche per l’Iran, dove lo scorso 12 dicembre è stato giustiziato il giornalista Ruholla Zam, oppositore del regime.
Ma la valutazione della situazione dei diritti dei giornalisti nel mondo e della libertà di stampa non si basa solo sul numero dei cronisti uccisi. Sono troppi, come rivelato da un rapporto del Committee to protect journalist pubblicato nei giorni scorsi, i cronisti finiti in carcere durante questi dodici mesi: 274 – si legge sul report – senza contare coloro che sono stati arrestati e poi rilasciati. Attualmente sono 387 i giornalisti in carcere.
Il triste primato spetta alla Cina con 47 arresti. Solo ieri Zhang Zhan, 37 anni, ex avvocata e blogger, è stata condannata a quattro anni di carcere. Zhan raccontò, tramite social media quali WeChat, Twitter e Youtube, il Covid-19 a Wuhan nella prima fase della pandemia. Dietro al gigante asiatico ci sono la Turchia con 37 arresti, l’Egitto con 27 e l’Arabia Saudita con 24.
La libertà di stampa e di pensiero, la cui importanza viene spesso dimenticata da chi già ce l’ha, è ancora oggi un baluardo dei sistemi democratici.
Mario Bonito