La sentenza di assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, nel processo stralcio per la trattativa tra Stato e mafia, con il rito abbreviato, entra nel processo d’appello per la trattativa, in corso davanti alla Corte d’Assise d’appello di Palermo. La Procura generale ha depositato una memoria in cui parla di “manifesta illogicità della motivazione assolutoria” dell’ex ministro Calogero Mannino “con riferimento ai fatti in precedenza accertati nel procedimento a carico dello stesso per concorso esterno in associazione mafiosa, indicativi di pluriennali rapporti con importanti esponenti mafiosi”, come si legge nella memoria in possesso dell’Adnkronos.
La Procura generale, rappresentata in aula dai sostituti procuratori Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, mette subito in chiaro che “non si mette in discussione il giudicato assolutorio” ma che c’è la “necessità di parlarne” per evidenziare alcuni fatti. Sono 21 i capitoli della memoria depositata dalla Procura generale. In cui i pg parlano di “motivazione illogica con travisamento del fatto, con riferimento alla verosimile consapevolezza e alla verosimile approvazione da parte del dottor Paolo Borsellino dell’iniziativa dei carabinieri Mori e De Donno di agganciare Vito Ciancimino”. I pg parlano anche di “un travisamento della prova con riferimento alle dichiarazioni rese da Agnese Borsellino in merito a quanto riferitogli dal marito pochi giorni prima di essere ucciso sul fatto che il generale Subranni ‘era punciutu'”. Imputati di minaccia a Corpo politico dello Stato sono gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex capo del Ros Antonio Subranni, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà e il pentito Giovanni Brusca. Gli imputati, tranne Brusca per cui fu dichiarata la prescrizione, sono stati condannati a pene pesantissime. La Corte d’Assise d’appello ha, invece, dichiarato prescritto il reato di calunnia contestato a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che in primo grado aveva avuto 8 anni. Secondo i giudici il reato si sarebbe prescritto il 2 aprile 2018, prima dunque della sentenza di primo grado.
E ancora, la “mancata assunzione di testimonianza del collaboratore di giustizia Francesco Onorato” e la “mancata assunzione di prova decisiva, con l’assunzione della testimonianza di Giovanni Brusca a chiarimento delle dichiarazioni rese dallo stesso nell’udienza del 29 magio 2018”. E poi “il travisamento della prova con riferimento alle minacce subite e al terrore manifestato da Mannino già in epoca antecedente alla sentenza di Cassazione del maxiprocesso”. In 78 pagine, la Procura generale sottolinea “l’esigenza” di “una valutazione unitaria agli altri elementi di prova che confermano il fondamento dei fatti accertati nel diverso procedimento a carico di Mannino”. “E’ doveroso rappresentare anche in questo giudizio le doglianze rimaste senza risposta nel parallelo giudizio definito con il rito abbreviato”.
Per la Procura generale “le motivazioni del giudice di primo grado del processo Mannino sono approssimative e confuse anche nella ricostruzione del percorso argomentativo dell’accusa, mentre quelle dell’appello sembrano più che altro incentrate a enfatizzare ogni possibile criticità, a volte con evidente travisamento dei fatti, piuttosto che valutare la coerenza del ragionamento dell’organo requirente”.
“In questo diverso procedimento – spiega l’accusa nella memoria- proprio a causa della separazione della posizione dell’uomo politico che temeva di essere ucciso da Cosa nostra, ciò che costituisce l’antefatto alla contestata trattativa e, cioè, l’attivismo di Mannino che per le minacce ricevute si rivolge a Bruno Contrada e ad Antonio Subranni, non sempre è stato esplorato in modo compiuto”. I magistrati dell’accusa fanno poi riferimento a una “omessa e contraddittoria motivazione in merito alle dichiarazioni di Liliana Ferraro”, l’ex direttrice degli Affari penali ai tempi di Giovanni Falcone.
E poi, ancora, citano “l’omessa motivazione in merito alla intercettazione della conversazione telefonica del 25 novembre 2011” tra l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino e l’ex consigliere giuridico dell’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano “riguardano alla nomina di Francesco Di Maggio a vicedirettore del Dap”. Puntano anche sulla “illogicità della motivazione e travisamento dei fatti con riferimento alle dichiarazioni rese da Fernanda Contri”. “Se, nel rispetto della legge del 2017 ritenuta conforme ai principi costituzionali, sulla vicenda Mannino è calato il sipario, le censure prospettate dall’accusa rimaste irrisolte non possono che indebolire il peso del giudicato assolutorio in favore di Mannino in questo diverso procedimento a carico degli imputati” di questo processo. E sottolineano che è “doveroso rappresentare anche in questo giudizio le doglianze rimaste senza risposta nel parallelo giudizio con rito abbreviato”.
Nel frattempo, è ripreso nell’udienza di oggi, davanti alla Corte d’assise d’appello di Palermo, la requisitoria della Procura generale, che terminerà la prossima settimana. Oggi, però, a differenza della scorsa udienza, l’ex senatore Marcello Dell’Utri non è presente in aula.