“In parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Palermo in data 20 aprile 2018 assolve De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subranni Antonio dalla residua imputazione a loro ascritta per il reato di cui al capo A, perché il fatto non costituisce reato”, poche righe, questo l’incipit della sentenza nel processo d’appello sulla trattativa tra Stato e mafia, che oggi – dopo 3 ore di camera di consiglio – ha assolto Marcello Dell’Utri (condannato a 12 anni), ed i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno, anch’essi condannati in primo grado a 12 anni.
Come recita ancora il dispositivo emesso dai giudici, ”Dichiara non doversi procedere nei riguardi di Bagarella Leoluca Biagio, per il reato di cui al capo A, limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del governo presieduto da Silvio Berlusconi, previa riqualificazione del fatto… come tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello stato, per essere il reato cosi’ riqualificato estinto per intervenuta prescrizione. E per l’effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella in anni 27 di reclusione“. Inoltre, prosegue, ”Assolve Dell’Utri Marcello dalla residua imputazione per il reato di cui al capo A, come sopra riqualificato, per non avere commesso il fatto e dichiara cessata l’efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio già applicata nei suoi riguardi“.
La Corte, che ha fissato in 90 giorni il termine per il deposito delle motivazioni, ha infine revocato “le statuizioni civili nei riguardi degli imputati De Donno, Mori, Subranni e Dell’Utri e rideterminato in 5 milioni di euro l’importo complessivo del risarcimento dovuto alla Presidenza del Consiglio dei ministri”. Infine, come scrive l’agenzia di stampa AdnKronos, la Corte d’assise “conferma nel resto l’impugnata sentenza anche nei confronti di Giovanni Brusca e condanna gli imputati Bagarella Cin alla rifusione delle ulteriori spese processuali in favore delle parti civili (Presidenza del Consiglio dei ministri, presidenza della regione siciliana, comune di Palermo, associazione tra familiari contro le mafie, centro Pio La Torre”.
“Che di questa trattativa debbano rispondere solo gli uomini della mafia, usati come capro espiatorio, e nessun uomo dello Stato mi pare un risultato sostanzialmente ingiusto. Certamente lo Stato non esce assolto da questa sentenza, escono assolti solo quegli uomini dello Stato che erano stati imputati“. Così l’ex procuratore aggiunto di Palermo (e ‘padre’ dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia), Antonio Ingroia, al quale l’agenzia di stampa, avuta notizia della sentenza, ha chiesto un commento ‘a caldo’.
Alla domanda se l’ex magistrato si dichiari sorpreso dalla decisone della corte d’assise, Ingroia replica che “C’era già stata l’assoluzione di Mannino, era una delle possibilità in campo. Non sono rimasto né sorpreso né deluso. Non si tratta di questo. Io ho la coscienza a posto, so che ci sono stati giudici che hanno confermato in toto tutta l’impostazione. Registro solo un dato: gli stessi giudici dell’appello confermano esserci stata una trattativa nella quale la mafia minacciava lo Stato, usando intermediari delle Istituzioni. Sono un po’ curioso di leggere le motivazioni per capire come sia possibile che ne rispondano solo i mafiosi ma nessun colletto bianco. Vedremo se la Procura generale farà ricorso per Cassazione”.
Dunque, prosegue l’ex magistrato antimafia, “Da una parte la Corte d’appello condanna per il reato di minaccia i mafiosi, dall’altro assolve i colletti bianchi. Quindi vuol dire che la trattativa c’è stata e che non è una bufala. Aspettiamo di leggere le motivazioni, ma una sentenza così è difficile da spiegare: solo se fossero stati tutti assolti sarebbe stato ribaltato il giudizio di primo grado con la conseguenza di riconoscere l’assenza della trattativa. Invece la condanna di Cinà conferma il papello e il suo arrivo a destinazione. La minaccia nei confronti dello Stato ci fu. Quindi questa sentenza conferma la trattativa, mentre esclude la responsabilità personale degli imputati condannati come tramite nel processo di primo grado”.
Infine, conclude Ingroia, ”Spererei alla fine di questa vicenda processuale di non dover dare ragione post mortem a Totò Riina quando diceva di essere diventato il parafulmine di tutti i misteri italiani, dove lo Stato italiano si rifugia dietro l’ombra dei capimafia“.
Max