PREOCCUPA IL FENOMENO DELLA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA: SPESSO IL MADE IN ITALY ‘NASCE’ ALL’ESTERO

Mentre la speranza è quella di una rapida (ri)crescita economica, cercando così di lasciarci alle spalle i fantasmi di una crisi che ci letteralmente piegati, continua ad espandersi invece la delocalizzazione: aziende ed imprese italiane le quali, complici la pressione fiscale, preferiscono trasferirsi all’estero. A fare il punto sulla situazione, ancora una volta è l’ufficio Studi della Cgia, che ha elaborato i dati raccolti da Banca dati Reprint del Politecnico di Milano, e dell’Ice, Basti pensare che, fra 2009 ed il 2015, il numero delle imprese che hanno aumentato la loro partecipazione all’estero, è aumentato del 12,7%. Un fenomeno che si ripercuote soprattutto a danno dei lavoratori. A spiegare l’entità del fenomeno, i numeri del fatturato, cresciuto dell’8,3% (per un giro di affari di oltre 40 mld di euro). Ad esempio, nel 2015, le imprese straniere controllate da aziende italiane (35.684), hanno registrato un ricavo pari a 520,8 miliardi di euro. Commercio, manifatturiero (intesi prodotti in metallo, apparecchiature meccaniche, metallurgiche e macchinari), sono settori maggiormente beneficiati da questa scelta commerciale. Ma attenzione, fa notare Renato Mason, segretario della Cgia, “Chi pensava che la meta preferita dei nostri investimenti all’estero fosse l’Europa dell’Est rimarrà sorpreso. A eccezione della Romania, nelle primissime posizioni scorgiamo i Paesi con i quali i rapporti commerciali sono da sempre fortissimi e con economie tra le più avanzate al mondo”. Infatti, sempre in riferimento al 2015, sono stati gli Usa (oltre 3.300), il riferimento principale degli investimenti delle aziende all’estero. Quindi la Francia (2.551 casi), la Romania (2.353), la Spagna (2.251) la Germania (2.228), il Regno Unito (1.991) e la Cina (1.698). Come tiene però a sottolineare Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi Cgia, “Purtroppo non ci sono statistiche complete in grado di fotografare con precisione il fenomeno della delocalizzazione produttiva. Infatti, non conosciamo, ad esempio, il numero di imprese che ha chiuso l’attività in Italia per trasferirsi all’estero. Tuttavia, siamo in grado di misurare con gradualità diverse gli investimenti delle aziende italiane nel capitale di imprese straniere ubicate all’estero. Un risultato, come dimostrano i dati riportati in seguito, che non sempre dà luogo ad effetti negativi per la nostra economia”. Inoltre, prosegue Zabeo, “Circa il 78% del totale delle partecipazioni sono riconducibili a imprese italiane ubicate nelle regioni del Nord Italia che, comunque, presentano livelli di disoccupazione quasi fisiologici e sono considerate, a tutti gli effetti, aree con livelli di industrializzazione tra i più elevati d’Europa”. In tal senso la Lombardia (11.637 partecipazioni), è in testa alle regioni del Paese maggiormente attratte dagli investimenti all’estero, seguita dal Veneto (5.070), dall’Emilia Romagna (4.989), e dal Piemonte (3.244). “Quando la fuga non è dettata da mere speculazioni di natura opportunistica – conclude il coordinatore dell’Ufficio studi Cgia – queste operazioni di internazionalizzazione rafforzano e rendono più competitive le nostre aziende con ricadute positive anche nei territori di provenienza di queste ultime”. Tuttavia, la Cgia tiene anche a sottolineare che, negli ultimi tempi, sono molte anche le imprese italiane che hanno imboccato il percorso a ritroso, ri-localizzandosi in Italia. Ricordiamo i casi di grandi aziende come Benetton, Bottega Veneta, Fitwell, Geox, Safilo, Piquadro, Wayel, Beghelli, Giesse e Argotractors.
M.