“Una materia così delicata ed intrisa di dolore fisico e psichico non può diventare oggetto di contendere politico ma semmai dovrebbe risolversi nell’unione del Parlamento all’ascolto della sofferenza che esprimono i bambini in cui insorge la disforia di genere anche al fine di identificare e definire il progredire di modalità di accompagnamento all’auto-percezione”. Ne parla con l’Adnkronos la Professoressa Alessandra Graziottin, autrice sul tema di ‘L’Enigma Identità’, primo libro in Italia pubblicato sulle Disforie di genere nel lontano 1996 dal Gruppo Abele. Graziottin ritiene che il tentativo di rendere l’autopercezione soggetto giuridico sia “importante ma purché il riconoscimento di una zona centrale di situazioni meno polarizzate (come i non binary) non diventi o sia percepita come un destino o un obbligo evolutivo”. “Recenti studi presentati alla International Society For the Study of Women Sexual Health (Isswsh), Usa, mostrano che le disforie di genere sono molto più presenti nelle classi socioeconomiche più basse. Questo ci deve far porre quesiti critici suoi fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento della disforia di genere di tipo socioambientale, oltreché biologico ed affettivo_relazionale “.
“I disturbi dell’identità di genere – spiega – sono un grandissimo ombrello all’interno del quale troviamo situazioni molto diverse. Innanzitutto dobbiamo identificare l’età di insorgenza del problema. La disforia di genere più sostanziale che porta il bambino o la bambina a sentire fin da piccoli di essere un maschietto vestito da bambina o viceversa inizia già verso i due anni di età e allora in questo caso si parla di una forma primaria che certamente merita una attenzione molto particolare. Ma è una percentuale minima della popolazione”.
Tutte le forme che compaiono più tardivamente “impongono invece il porsi di un quesito: se il disagio che l’adolescente ha all’interno della propria pelle di maschio o femmina è ‘espressivo’ di una effettiva appartenenza biopsichica al sesso opposto, oppure se questa disforia di genere sia ‘difensiva’ rispetto ad altre difficoltà relazionali o ambientali e/o ad un dolore di vivere per cui l’adolescente fa una fuga in avanti su una illusione di felicità attraverso il cambio di sesso, non essendo stato aiutato né educato a dare una risposta appropriata sul terreno psicologico”.
La maggiore prevalenza di disforie di genere nelle classi socieconomiche più disagiate a maggior ragione farci interrogare su quanto le disforie di genere siano ‘espressive’ di una dissonanza tra la biologia e la psiche, che va aiutata ad esprimersi compiutamente e invece quanto siano ‘difensive’ rispetto ad una sofferenza che potremmo indirizzare meglio ed aiutare a risolvere mantenendo l’identità di genere biologica. Anche magari consentendo quell’espressione di un desiderio omosessuale o bisessuale – precisa – senza l’intervento farmacologico e chirurgico sul corpo. In particolare, le forme primarie è molto importante siano confermate prima della pubertà, perché le decisioni farmacologiche e chirurgiche da intraprendere sono essenziali per consentire poi un passaggio verso il sesso desiderato molto più facilitato”.
Consentire ad un maschio che si sente femmina “di non avere tutto lo scatto testosteronico che conduce allo sviluppo di un corpo decisamente mascolinizzato … consente poi una evoluzione molto più credibile. E poiché stiamo parlando di minori – ricorda la sessuologa – si può intervenire su una zona di ‘hold on’ (attesa – ndr) in cui noi ritardiamo la pubertà e non prendiamo decisioni drastiche, perché a 12 anni – conclude – sono ancora bambini”. (di Roberta Lanzara)