In quanto “militare appartenente alla Marina militare e successivamente distaccato ai Servizi segreti, detentore di armi da fuoco e autore dello sparo, ha gestito in maniera autoritaria l’incidente e ha da subito minimizzato l’accaduto, tentando di rassicurare i familiari con spiegazioni poco credibili” dunque, proseguono i giudici, Antonio Ciontoli “ha interrotto bruscamente la prima telefonata al 118 effettuata dal figlio Federico e dalla moglie affermando ‘non serve niente’; giunto al Pit di Ladispoli, ha preteso di conferire con il medico di turno, spiegando che l’incidente doveva essere mantenuto il possibile riservato, in ragione del suo impiego alla Presidenza del Consiglio”. Inoltre, “Lo stato di soggezione nel quale versavano i familiari si desume da molteplici circostanze: tutti gli imputati, dopo aver compreso l’accaduto, omisero di attivarsi per aiutare effettivamente Marco“.
Insomma, alto ‘che storie’, ”La condotta di Antonio Ciontoli fu dunque non solo assolutamente anti doverosa ma caratterizzata da pervicacia e spietatezza, anche nel nascondere quanto realmente accaduto, sicché appare del tutto irragionevole prospettare, come fa la difesa, che egli avesse in cuor suo sperato che Marco Vannini non sarebbe morto”.
E’ si legge nelle motivazioni (oltre 62 pagine), scritte dai giudici della ‘V sezione penale’ della Cassazione, in merito alla sentenza dello scorso 3 maggio, attraverso la quale – accusato di omicidio volontario con dolo eventuale – è stata confermata la condanna a 14 anni per Antonio Ciontoli.
I fatti si riferiscono all’ormai tristemente noto omicidio dello sfortunato 21enne di Cerveteri, Marco Vannini, ucciso nella villetta dei Ciontoli (a Ladispoli), a seguito di un colpo di pistola, esploso ei suoi confronti la notte tra il 17 e il 18 maggio 2015.
Quindi, rigettando i ricorsi degli imputati, nella stessa sentenza i supremi giudici, hanno confermato la condanna a 9 anni e 4 mesi (inflitta loro nel processo d’appello bis, lo scorso settembre), nei confronti dei due figli di Ciontoli: Martina e Federico, e alla moglie, Maria Pezzillo, per concorso anomalo in omicidio volontario.
In sintesi, ciò che ha reso raccapricciante l’accaduto, è che “Gli imputati scelsero di non fare alcunché che potesse essere utile per scongiurare la morte, non solo rappresentandosi tale evento ma accettando la sua verificazione, all’esito di un infausto bilanciamento tra il bene della vita di Vannini e l’obiettivo avuto di mira, ovvero evitare che emergesse la verità su quanto realmente accaduto”. Come si legge ancora nelle motivazioni infatti, ”Ciontoli era ben consapevole di aver colpito Marco Vannini con un’arma da fuoco e della distanza minima dalla quale il colpo era stato esploso; era inoltre consapevole che il proiettile era rimasto all’interno del corpo del Vannini, come gli aveva fatto notare anche il figlio Federico dopo il ritrovamento del bossolo, e, sebbene la ferita avesse smesso di sanguinare dopo essere stata tamponata, egli ha necessariamente immaginato, rappresentandosi e, nonostante ciò accettando il verificarsi dell’evento che quel proiettile potesse essere causa di una emorragia interna”.
Il passaggio più impietoso che emerge dalle oltre 62 pagine vergate dai giudici supremi, è ”che la preoccupazione della famiglia Ciontoli fosse incentrata esclusivamente sulle conseguenze dannose, derivanti dalla situazione che era venuta a crearsi, si evince dal contegno tenuto da tutti gli imputati anche dopo aver appreso della morte di Vannini. Le risultanze delle intercettazioni ambientali acquisite – si legge infatti – restituiscono un quadro illuminante sulla configurabilità del concorso doloso, giacché Antonio, Federico e Martina hanno pacificamente tentato di addivenire ad una versione concordata circa le pistole, su dove si trovassero, su chi le avesse prese e tolte dal bagno“.
Insomma, ”Tutti si preoccuparono subito della presenza del proiettile ancora nel corpo di Vannini, tutti ebbero immediata cognizione di tale circostanza e tuttavia nessuno si attivo’ per allertare tempestivamente i soccorsi, fornendo le informazioni necessarie a garantire cure adeguate al ragazzo ospitato nella loro abitazione e che, sino a quella sera, avevano trattato come uno di famiglia. Eppure Vannini – viene rimarcato – si era lamentato per il dolore, aveva invocato aiuto e lo aveva fatto in modo talmente forte che le sue urla erano state distintamente avvertite dai vicini di casa e registrate nelle conversazioni telefoniche con gli operatori del 118”…
Max