“In tempi normali la corsa al Quirinale sarebbe un po’ come il palio di Siena. Un grande tramestio di cavalli e fantini, una certa agitazione sugli spalti, un gioco incrociato di accordi e tradimenti, lusinghe e minacce. Fino a quando non cade il canapo e comincia una ressa frenetica verso il traguardo.
Infatti ogni candidato, un po’ come ogni contrada senese, immagina di avere delle possibilità e dunque si dedica a limare il profilo della sua immagine rilasciando interviste prudentemente criptiche, presentando libri con fare dovutamente complimentoso, comparendo di tanto in tanto alla tv per dire il meno possibile. E sempre con l’aria di parlar d’altro, così che nessuno possa aversene a male. Quasi fossero dei giri di prova, confidando che il tifo degli amici possa essere caloroso ma discreto e la contrarietà degli avversari si faccia doppiamente discreta.
E’ una lunga tradizione che si perpetua fin dall’immediato dopoguerra, e che ha (quasi) sempre portato all’elezione di candidati che non fossero politicamente troppo ingombranti. L’unico ‘capo’ politico munito di un suo esercito a salire al Colle fu Antonio Segni, nel lontano 1962. Era il capo della più forte corrente democristiana, quella dei ‘dorotei’, e veniva visto con diffidenza dagli altri potentati dell’epoca perché prometteva di avere un ruolo assai poco notabilare. Appunto per questo fece del suo meglio per propiziarsi il favore dei più lontani.
A pochi giorni dalle elezioni presidenziali, infatti, Segni si trovò a fare un viaggio di Stato in Norvegia. Tentando di metterlo sotto controllo, Mariano Rumor pensò bene di mandargli al seguito un giovanotto di belle speranze, Toni Bisaglia. Il quale scoprì subito che da Oslo il candidato scriveva cartoline affettuosissime a tutti i parlamentari comunisti, con l’intento di ammorbidire la loro contrarietà. Così, temendo gli eccessi di quella singolare ‘campagna’, si offrì di imbucare lui stesso quelle cartoline, gettandone una discreta quantità nel cestino dei rifiuti.
Altri tempi, altre storie, altra gente. E anche altri partiti, ovviamente. Ora però, a differenza di allora, noi ci troviamo alle viste di una contesa un po’ particolare. Con un paese stremato dalla pandemia, tra forze politiche in perenne transizione e con una montagna di denaro alle viste da spendere senza dissiparne neppure un centesimo. Appare ovvio che in un simile contesto disputare il palio di Siena, come fossimo in un tempo canonico, ci esporrebbe a qualche rischio. E dunque sembrerebbe più saggio trovare un modo per eleggere il prossimo capo dello Stato alla prima votazione e con un consenso larghissimo. Come avvenne per Cossiga e per Ciampi, uniche eccezioni alla eterna regola del combattimento.
Ora, per arrivare in quei paraggi occorrerà trovare una figura che evochi lo spirito istituzionale al massimo grado. E questo sembra portare le cose verso due, e due soli, nomi possibili: Mattarella e Draghi. Possibili, ma niente affatto certi. Infatti l’attuale inquilino ha già fatto sapere in lungo e in largo che esclude di fare un secondo mandato. E l’attuale capo del governo ha un implicito ‘contratto’ con il Parlamento e con l’Europa che scade nel 2023 e non prima.
Eppure, il bivio resta questo. O si elegge un presidente che sta -davvero- due spanne sopra la disputa politica, e dunque può essere visto come una sorta di istituzione incarnata. Oppure si fa cadere il canapo, come in quel di Siena, e si lasciano correre i cavalli imbizzarriti verso il traguardo. Sapendo però che faranno del loro meglio per ostacolarsi a vicenda e che alla fine della contesa, quale che ne sia l’esito, si saranno sfilacciati molti rapporti politici.
Insomma, si tratta di scegliere se chiudere la campagna prima di aprirla, o invece aprirla senza sapere come chiuderla”.
(di Marco Follini)