Selfie, selfie e ancora selfie.
Scattare selfie, immortalare momenti salienti e poi pubblicare tutto sui principali social network: routine quotidiana, ormai, degli ultimi anni; anni in cui la tecnologia ha assunto un ruolo dominante e, spesso, invadente. Sono in molti infatti a disprezzare luso sconsiderato di scattarsi foto o di descrivere dettagliatamente ogni momento della giornata, secondo la moda del classico selfie: ma il pensiero di un grande autore di alcuni decenni fa potrebbe forse farci cambiare idea. Parliamo di Claude Lévi-Strauss (che oggi avrebbe 110 anni), forse il primo scrittore, antropologo e studioso che colse limportanza e la bellezza di un selfie. Fu proprio nel capolavoro Tristi tropici che Levi-Strauss approfondì largomento, facendosi beffe di un luogo comune antropologico, quello per cui i “selvaggi” e i “primitivi” fuggirebbero di fronte allobiettivo della macchina fotografica per il terrore, appunto, che rubi loro il segreto più intimo dellidentità umana. Con lui, i suoi amati Caduvei si comportarono ben diversamente. “Avevano perfezionato il sistema: non solo essi esigevano di essere pagati per lasciarsi fotografare, ma mi obbligavano a fotografarli perché io li pagassi”. Al punto che, saggio amministratore del bene limitato delle sue pellicole, il giovane Claude fingeva soltanto di scattare – e sborsava “qualche milreis”. Ma fu proprio durante una di quelle piccole recite che una donna Caduveo gli fece forse cambiare idea sulla fotografia. E attraverso di lui, la fa cambiare anche a noi, spettatori-sprezzatori della alluvione di immagini della Rete.
Figlio e nipote di pittori, il padre dellantropologia strutturale aveva, in verità, un debole per la fotografia. Laveva praticata come hobby da ragazzino, e aveva con sé una buona fotocamera, una Leica quando, nel 1935, si ritrovò in Brasile per linizio della sua luminosa carriera. Per la verità, la usava come un turista. Fotografava architetture e paesaggi. Come tutti i turisti, era circondato da ragazzini urlanti “tira o retrato! Tira o retrato!”, che lui accontentava parsimoniosamente (salvo essere arrestato, una volta, a Bahia, per “atto ostile al Brasile”, da poliziotti indignati per il suo tentativo di “accreditare in Europa la leggenda che esistono brasiliani dalla pelle nera e che i monelli di Bahia vanno a piedi nudi”). Nel suo lavoro di ricerca sul campo, a differenza di altri grandi etnologi, Lévi-Strauss si servì malvolentieri della fotografia, anche solo come blocco dappunti visuale. “Non ho mai attribuito molta importanza alla fotografia. Ho fotografato perché si doveva, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo”, confessò nel 2005 quando il Centre Pompidou gli dedicò una mostra. Le fotografie, insisteva, “non sono una parte delle mie esperienze, ne sono soltanto gli indizi”, e anzi, “quando si ha locchio dietro lobiettivo di una macchina da presa non si vede quello che succede e si capisce ancora meno”, e dunque “rivedendole, quelle fotografie suscitano in me limpressione di un vuoto, di unassenza di ciò che lobiettivo è sostanzialmente incapace di cogliere” Insomma, anche Lévi-Strauss sembrerebbe allinearsi a quellatteggiamento di estremo sospetto verso la fotografia che accomuna il pensiero critico francese del Novecento (nel paese che paradossalmente la fotografia la inventò e la regalò al mondo…). Come Barthes, come Sartre, come Bourdieu, come Baudrillard. Aggiungendovi un suo specifico accento sui misfatti che la fotocamera ha perpetrato ai danni di quella “povera selvaggina presa al laccio della civiltà meccanizzata, indigeni della foresta amazzonica, tenere e impotenti vittime”, per colpa di chi “brandisce davanti a un pubblico avido gli album di foto a colori al posto delle vostre maschere ormai distrutte” per “saziare delle vostre ombre il cannibalismo nostalgico di una storia dalla quale siete già stati sopraffatti” Latto daccusa contro limperialismo dello sguardo, del resto, è noto e fondato. Già negli anni Cinquanta, quando scrive queste cose, “LAmazzonia, il Tibet e lAfrica invadono le vetrine sotto forma di libri di viaggio, resoconti di spedizioni e album di fotografie, dove la preoccupazione delleffetto è troppo preponderante perché il lettore possa valutare la testimonianza che gli è offerta”. on poteva dare un giudizio diverso chi scelse per quel suo libro celeberrimo un incipit folgorante: “Odio i viaggi e gli esploratori”. Eppure Tristi tropici, uscito nel 1955 e vincitore del premio Goncourt, è un libro illustrato con fotografie. Proprio le sue, quelle che Lévi-Strauss prese con la Leica e la Voigtländer tra i Nambikwara dellAmazzonia. Quel sedicesimo illustrato fu, a quanto pare, una perentoria richiesta delleditore: la collana in cui apparve lo prevedeva. Poi però, quarantanni dopo, nel 1994, uscì il suo Saudades do Brasilche è un libro fotografico a tutti gli effetti.
Dire che nel frattempo Lévi-Strauss avesse cambiato idea sulla fotografia è azzardato. Tuttavia, il suo religioso rispetto per il dato raccolto sul campo dovette farlo riflettere. È bello pensare che sia accaduto quando una donna Caduveo gli si presentò davanti, “particolarmente agghindata”, chiedendogli di fotografarla (a pagamento). “Sarei stato un pessimo etnografo resistendo a queste manovre, o anche considerandole come una prova di decadenza o di mercantilismo. Sotto una trasposizione di forma, riapparivano i tratti specifici della società indigena: indipendenza e autorità delle donne di alto lignaggio, ostentazione davanti allo straniero, e rivendicazione dellomaggio da parte delluomo comune”.
La differenza fra un intellettuale superbo e cieco e un pensatore profondo è tutta qui. Lévi-Strauss si fa mettere in discussione da quel che si trova davanti. Non si permette di liquidare un oggetto culturale, la fotografia, sulla base della sua apparente irritante banalità. Sa che i riti sociali evolvono, anche molto in fretta, specialmente quando avvengono improvvise contaminazioni culturali. Intuisce che la fotografia, strumento delluomo bianco, entra improvvisamente nel circuito dello scambio simbolico di una piccola società tribale che la assorbe, la metabolizza, la mette al suo servizio. Capisce che la fotografia, come tutti i materiali a disposizione delle relazioni umane, non è un oggetto, ma una funzione sociale. Cambia e si adatta ai contesti, agli impieghi, alle culture che attraversa.
Bene, è quello che testardamente continuano a non capire molti intellettuali sussiegosi quando liquidano con una smorfia di disgusto la fotografia condivisa, i selfie, le fotine da social, la mania Instagram. Incapaci di leggere dietro queste nuove forme relazionali lincarnazione di “tratti specifici” della società moderna forse non così distanti dai bisogni inconsapevoli della donna Caduveo: riconoscimento sociale dellindividuo (il fotografante), ostentazione del sé nei confronti degli sconosciuti (i follower), richiesta di omaggio da parte delluomo comune (i like…) Le fotografie con cui traffichiamo sui social sono lo spazio rituale inedito di uno scambio simbolico collettivo, dietro cui è possibile leggere sia la struttura profonda della nostra convivenza che le mutazioni delle sue regole, dei suoi strumenti, delle sue manifestazioni. I frettolosi sprezzatori della fotografia condivisa, così ansiosi di espellerla dal campo del legittimo e perfino delletico, rileggano almeno questa aurea raccomandazione, semplice e cristallina, del grande etnologo: “Per ogni forma di pensiero e di attività umane non si possono porre problemi di natura o di origine prima di avere analizzato e identificato i fenomeni, e scoperto in quale misura le relazioni che li uniscono bastino a spiegarli”.