(Adnkronos) – “Ci sono tanti studi che confermano come dal punto di vista socio-economico il disturbo del sonno non sia preso troppo sul serio, ma costringa le persone ad aumentare visite ed esami, accessi al pronto soccorso e degenza”. Lo spiega Giuseppe Plazzi, professore di Neurologia all’Università di Modena e Reggio Emilia e direttore del Centro disturbi del sonno, narcolessia e ipersonnie del sistema nervoso centrale dell’Irccs, Istituto di scienze neurologiche di Bologna, a latere della 16esima edizione del Word Sleep Congress 2022 che si è recentemente svolto a Roma.
“La sottostima dei disturbi del sonno – sottolinea – comporta la non corretta diagnosi, quindi una diagnosi sbagliata o un trattamento sbagliato. Quante persone con insonnia sono trattate per depressione”, e “a volte i trattamenti farmacologici per la depressione peggiorano l’insonnia. E poi ci sono quelli che non sono trattati, che sono sicuramente di più. Si deve invece approcciare in modo corretto con terapia farmacologica o comportamentale il problema dell’insonnia sin dall’inizio”.
E’ difficile che alla prima visita il paziente con disturbi del sonno sia inquadrato come tale. C’è un grosso lavoro educazionale da fare. “Il paziente – dice Plazzi – dovrebbe innanzitutto parlarne con il medico di medicina generale che dovrebbe capire se il problema richiede un espero. Ci sono 40 centri in Italia”, ma la questione è che “la medicina del sonno non viene insegnata all’università – precisa l’esperto – Esiste l’Associazione italiana di medicina del sonno, esiste una rete di centri, ma non esiste uno specialista riconosciuto che prenda uno stipendio per trattare i disturbi del sonno. Lo troviamo in neurologia, pneumologia, otorinolaringoiatria e psicologia – che non è un medico – ma anche nella pediatria e neuropsichiatria”.
Qualcosa però si muove. Come dice Plazzi, “per quello che riguarda il disturbo delle apnee del sonno, che interessa il 4-7% della popolazione, le Regioni stanno attivandosi per creare Pdta, dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali, per una rete di strutture competenti di diverso livello. Non siamo avanti, ma sembra che stiamo partendo”.
In questo contesto, “la tecnologia non può sostituire l’uomo, ma sicuramente può dare un aiuto – rimarca il neurologo – Abbiamo imparato, a causa del Covid, a fare della telemedicina, e parlo di tutti i medici o quasi tutti, con quello che abbiamo – telefono, telefonino o zoom – e anche con dei progetti messi in piedi da alcune aziende o centri di ricerca. La telemedicina facilita sicuramente l’accesso” alle cure. Non è ancora “ben definita dal punto di vista di responsabilità rischi e pagamento delle prestazioni – continua lo specialista – ma è molto interessante anche per seguire i pazienti con patologie rare, anche del sonno, che vivono lontano da un centro”.
Gli strumenti wearable, indossabili e semplici da usare, producono moltissime “informazioni che, se oggi non sono ancora affidabili, lo saranno molto presto”, osserva Plazzi ricordando l’importanza del medico per capire cosa indagare: “Devi sapere quello che devi andare a cercare, il quesito diagnostico deve farlo il medico”.