NAPOLITANO TESTIMONE AL PROCESSO STATO-MAFIA di Marco Harmina

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    È terminata alle 14 la mattinata del capo dello Stato Giorgio Napolitano, chiamato a testimoniare al Quirinale sulla presunta trattativa Stato-mafia, davanti, in via del tutto eccezionale, alla Corte d’Assise di Palermo. Quest’ultima è stata presieduta da Alfredo Montalto, una cancelliera, i cinque magistrati della pubblica accusa, anche se solo due di loro hanno potuto rivolgere domande a Napolitano, vale a dire il procuratore aggiunto Vittorio Terenzi e il pm Nino Di Matteo, e poi l’avvocato Luca Cianfaroni, legale di Totò Rina. L’incontro è avvenuto a porte chiuse, calcisticamente parlando, nella sala del Bronzino, altresì chiamata “Sala Oscura”, in cui vigeva l’assoluto divieto per l’utilizzo di smartphone, telecamere, videoregistratori e registratori vocali, nonché per la presenza di tutti gli addetti alla stampa.  La seduta è stata comunque registrata. Molte quindi le indiscrezioni che hanno catturato l’attenzione dei media, quali per cui il Presidente si sia avvalso della facoltà di non rispondere, comportamento previsto dalla carica istituzionale che ricopre. Più tardi però il Quirinale stesso ha voluto chiarire la sua speranza “che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l’acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all’opinione pubblica” dell’udienza. L’avvocato Cianfaroni è riuscito ad ottenere il permesso di poter “interrogare” il Presidente della Repubblica ed al quale ha esposto ben 15 domande con l’intento di sottolineare l’importanza ai fini del processo della celebre lettera di D’Ambrosio: ex consigliere giuridico di Napolitano, a giugno del 2012, due mesi prima di morire, inviò al Capo dello Stato quando, amareggiato dalla campagna di stampa seguita alla pubblicazione delle intercettazioni delle sue telefonate con Nicola Mancino, presentò al Presidente della Repubblica le sue dimissioni. Respinte. Nella lettera, riferendosi agli anni tra l’89 e il ’93, quando era all’alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia con Falcone, D’Ambrosio esprimeva a Napolitano il timore “di essere stato considerato l’utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Altro punto sottolineato dal legale di Rina è che “la Corte non ha ammesso la domanda più importante, quella sul colloquio tra il presidente Napolitano e l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro quando pronunciò il famoso “non ci sto!”. Il presidente – ha detto ancora il legale di Riina – ha tenuto sostanzialmente a dire che lui era uno spettatore di questa vicenda”.

    La parola ’trattativa’ha riferito un legale della difesanon è mai stata usata”.Nel corso della deposizione – ha detto Giovanni Airò Farulla, avvocato del Comune di Palermo – Napolitano ha riferito che, al’epoca, non aveva mai saputo di accordi” tra apparati dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi.

    “Il presidente – ha spiegato l’avvocato Nicoletta Piergentili della difesa di Nicola Mancino – ha riferito di non essere stato mai minimamente turbato delle notizie su presunti attentati alla sua persona nel 1993. Questo perché faceva parte del suo ruolo istituzionale”. Il legale dell’ex generale Mario Mori non ha posto domande al presidente della Repubblica “per rispetto istituzionale”. La più colpita da questa giornata è, senza dubbio, l’immagine della politica italiana.