Un “j’accuse” finale ai troppi “protagonismi” di pubblici ministeri, alla mondana voglia di finire sotto i riflettori, ai processi ancora biblici che rallentano la ripresa del Paese. Si tratta di un’analisi cruda, da fine mandato, quella elaborata oggi da Giorgio Napolitano nel suo ultimo incontro al Consiglio superiore della magistratura. Una critica dura ma costruttiva che si inserisce nel solco di quanto ha sempre segnalato in questi quasi nove anni da presidente del Csm. Troppo importante è in questa fase, per il presidente, l’opera che tocca ai pm per essere offuscata dai riflettori: “Contro il diffondersi della corruzione e della criminalità organizzata – e i suoi legami con la politica – emersi in questi giorni è fondamentale l’azione repressiva affidata ai Pm e alle forze di polizia”, premette al Csm. Ai giudici di palazzo Marescialli il presidente ha confermato poi due semplici messaggi: la riforma della Giustizia va fatta presto e bene ma l’organo di autogoverno della magistratura non deve pensare che sia un’operazione salvifica che tutto risolve. La magistratura italiana deve operare subito per tagliare le sacche di inefficienza, razionalizzare il sistema, accorciare il tempo dei processi e informatizzare le procedure. Problemi noti che non derivano tutti dal loro interno: ad aggravare la situazione c’è stata e c’è tuttora una patologia tutta italiana che si chiama “ipertrofia del processo legislativo”. E qui il capo dello Stato si concede un’importante digressione politica che lo porta dritto dentro il dibattito di questi giorni: la necessità di fare le riforme costituzionali. Napolitano non è mai stato così chiaro come oggi nel denunciare quello che considera una dei freni più importanti del sistema istituzionale italiano: il bicameralismo perfetto. Senza peli sulla lingua il presidente spiega ai membri del Csm prima del congedo come mai la riforma del Senato sia non solo necessaria ma vitale: “Il bicameralismo paritario è stato il principale passo falso dell’Assemblea costituente”, scandisce nel silenzio assoluto dell’assemblea. Un “tarlo” con il quale dobbiamo convivere ancora oggi.