Il Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, ha ucciso almeno 51 persone e ferite 129. È il bilancio, il peggiore finora, del fine settimana di proteste contro il colpo di stato militare del primo febbraio, in cui sono stati arrestati diversi esponenti del partito Lega nazionale per la democrazia, tra cui la leader Aung San Suu Kyi, e soppressa la già fragile democrazia. Nonostante la violenta repressione dei militari (dall’inizio delle proteste sono stati uccisi oltre centro civili), dopo un mese e mezzo dal golpe il movimento contro il governo militare non sembra aver perso vigore.
In risposta, domenica sera, la giunta militare ha dichiarato il regime di legge marziale ad Hlaingthaya, nel distretto di Yangon, assumendone il controllo. Nella zona alcuni manifestanti avrebbero danneggiato delle fabbriche cinesi. Sul colpo di stato proprio il ruolo della Cina, che nel Paese ha grandi interessi economici e strategici, è piuttosto ambiguo. A febbraio Pechino ha bloccato una risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condannava la presa del potere dell’esercito (così come nel 2007 e nel 2017 per la “questione rohingya”, minoranza musulmana in Birmania). Poco dopo anche nella zona industriale di Shwepyitha è stata introdotta la legge marziale.
Mentre per le strade proseguono e divampano le proteste, la terza udienza del processo contro Aung San Suu Kyi è stata rinviata per problemi tecnici con la connessione Internet (bloccata e “a singhiozzo” in tutto il Paese). San Suu Kyi è accusata di aver violato una legge sull’import-export (possesso illegale di walkie-talkie), la legge sulla gestione dei disastri naturali, di aver violato le restrizioni anti Covid durante la campagna elettorale di novembre e di aver provocato “paura e allarme”.