Aung San Suu Kyi, leader de facto della Lega nazionale per la democrazia, arrestata dai militari birmani nel golpe del primo febbraio, è accusata anche di aver violato una legge sui segreti di Stato, una norma risalente al periodo coloniale, che prevede fino a 14 anni di carcere. Sulla Signora pendono diverse accuse: incitamento a disordini pubblici, corruzione, contrabbando di walkie talkie e violazione delle disposizioni anti Covid.
Intanto nel Paese sono stati sospesi i servizi internet wireless fino a nuovo ordine. Per evitare possibili unioni sul fronte anti-golpista (il Myanmar è crocevia di culture e diverse etnie), la giunta militare ha annunciato una tregua di un mese nelle regioni delle minoranze. È lecito supporre che sia un cessate il fuoco solo di facciata; i ribelli non si sono fatti intimorire dal giro di vite da parte del governo militare e sono scesi nuovamente per le strade per manifestare il loro dissenso.
Solo ieri, giovedì primo aprile, l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici, ong con sede a Bangkok, ha registrato altre cinque vittime. Secondo l’associazione il bilancio totale è di 543 morti, di cui 43 sono minori, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children. Sono circa 2.700 le persone arrestate.
Il Paese rischia di scivolare in una vera e propria guerra civile. Conflitto che la comunità internazionale vorrebbe evitare. Ieri il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una dichiarazione di condanna per la morte di civili e di preoccupazione per il deterioramento della situazione. Su eventuali sanzioni nei confronti dei golpisti, però, manca l’accordo con la Cina.
Mario Bonito