E la storia di un musicista, come molti altri, nato con una naturale predisposizione alleccezione. Taluni lo chiamano talento, altri destino. Spesso però, alla distanza la differenza la fa il cuore. E Dino Kappa (Cappa, fino alla svista grammaticale di una segretaria che ne segnò lo pseudonimo artistico), è indiscutibilmente un grande musicista, in gran parte rodato dal vissuto che ne ha caratterizzato luomo; perché a far volare quelle dita sulla tastiera fino a creare un suono unico, personale hanno contribuito le vicissitudini, spesso cattive, di una vita vinta negli studi di registrazione, o su un palco, a far musica. Dunque cuore e canzoni, anima e groove: vita e mestiere allunisono, in un crescendo di pensieri, note ed emozioni. Quella di Dino da Candela – sangue pugliese intriso di ritmo e sacrificio – emigrato piccolissimo nella provincia torinese, è uninfanzia illuminata fin da subito dal pentagramma. La fisarmonica, la chitarra, la tastiera di un pianoforte scalcinato, per poi scoprire la magia delle 4 corde. Il basso. Sono gli anni pioneristici, quelli della musica straniera che, come una ventata a sparigliare un castello di carte, irrompe nel Paese in Mi7 fulminando la gioventù. Lavvento del beat, alla stregua di un virus contagioso, in breve tempo fagocita tutto e tutti, e Dino, enfant prodige del basso, cresciuto nelle balere prima e nei locali da ballo torinesi dopo, fiuta i tempi che cambiano e, allalba degli anni 70 decide di fare il grande passo trasferendosi nella Capitale. Qui ha inizio lepopea del musicista e lodissea delluomo, continuamente costretto a districarsi tra il cuore (una famiglia da sfamare e sistemare), e lanima (imporsi come musicista professionista). Sono tempi difficili, nei quali basta un attimo per buttare tutto. Ma la caparbietà, la capacità – nonostante tutto – di saper mantenere inalterato il suo equilibrio piscologico, forgiano uno spirito vincente. La sua tecnica, unica, bilanciata, scaturisce in un sound che in breve tempo diviene un vero e proprio marchio di fabbrica. Negli studi di registrazione della Rca Dino Kappa è il turnista (oggi session man) più richiesto. Il suo nome compare nei crediti degli album dei principali artisti italiani. Come per magia, a ciascun progetto al quale partecipa segue un successo di vendite. Sul palco è una forza della natura: negli anni 80 sdogana lo slap (o popping), regalando il primo piano al basso, uno strumento fino a quel momento sebbene asse portante della ritmica relegato in secondo piano. La televisione ne diffonde limmagine: dietro quegli occhialoni bizzarri ed i baffi sopra un sorriso beffardo, Dino raccoglie i meritati frutti. Ormai è un musicista completo e sono tanti i successi presenti nelle top-ten arrangiati da lui. Scrive musica e crea un suo gruppo ( i Libra) con il quale, fatto rarissimo, riesce ad accattivarsi linteresse del pubblico americano, meravigliato dal fatto che un italiano suoni così il prog-rock e la fusion. Insegna il basso, e dellamato strumento ne suggerisce ad un liutaio Umberto De Lucia – la realizzazione artigianale (nasce lo Jam). E poi anche dischi suoi (dal 1980), concepiti fondamentalmente per sperimentare un far musica altro, dove 4 corde possono diventare anche 16, intrecciandosi in uninteressante miscellanea di suoni e tecnica, tempo e pause. Quindi, momenti personali in cui rileggere anche composizioni altrui, cercando di capire dal suo punto di vista musicale come sarebbero andate a finire . E questa vita che ha musicalmente concorso ad accompagnare gli ultimi 50 anni del Paese, animata dai colori dei fari sui palchi, e volata nel chiaroscuro della sua vita privata, Dino ha voluto fermarla in uninteressante autobiografia (Dino Kappa, Retrospettiva tra vita e musica, edito da Terre Sommerse), che ripercorre la sua ascesa artistica, anche attraverso una cronologica ed esaustiva galleria dimmagini.
Max Tamanti