La voce è rotta dalla commozione. Da quel 3 ottobre 2013, quando 368 migranti persero la vita nel naufragio di un barcone davanti all’isola dei Conigli, a Lampedusa, sono trascorsi quasi otto anni. Don Stefano Nastasi l’inferno che si scatenò intorno alle 5 del mattino, quando già due barconi con oltre 460 persone a bordo erano stati soccorsi e portati a riva dalla Guardia costiera, lo ricorda bene. Sulla più grande delle Pelagie, nella parrocchia di San Gerlando, era arrivato nel 2007. Nel pieno dell’emergenza sbarchi. Oggi dopo l’ennesima strage di migranti, questa volta al largo delle coste della Libia, avverte: “Nel Mediterraneo si sta consumando un genocidio. L’ennesimo nella storia dell’umanità”.
“E’ un dolore che si perpetua – dice all’Adnkronos -. Ogni volta, ad ogni nuovo lutto, condanniamo, giudichiamo. Ma cosa è cambiato da allora? Nulla. Lacrime spazzate via dal vento dell’indifferenza. Il primo vero ‘ricollocamento’ non è tra le nazioni ma nel cuore dell’uomo”. Oggi per don Stefano l’umanità è chiamata a una nuova sfida. “La pandemia ha amplificato paure e diffidenze, il rischio è il disorientamento totale – dice -. Siamo chiamati ad attraversare il deserto della solitudine e senza una risposta da parte dell’altro si rischia di soccombere. Si muore nel mare dell’indifferenza, nel deserto del dolore”.
Su quel gommone capovolto in balia delle onde, divenuto il simbolo dell’ennesima tragedia, per l’ex parroco di Lampedusa, oggi guida della parrocchia del Carmine a Sciacca (Agrigento), “ci siamo tutti: o affondiamo tutti insieme o ci salviamo tutti. Ma le fragilità dei nostri fratelli, siano essi i migranti alla ricerca di una nuova vita o l’anziano solo della porta accanto, devono essere le nostre, di entrambe bisogna farsi carico”.
“Spesso in questi anni del mio ministero – ricorda – ho pensato e pregato per le giovani vite accolte dal Mediterraneo: forse lo pensavano come un mare di speranza o un oceano porto di futuro, non certo come un loculo. Che tomba inquieta!”.
L’8 luglio del 2013 fu don Stefano a invitare Papa Francesco a Lampedusa. Gli inviò una lettera dopo l’elezione. Quel giorno lo ricorda come fosse oggi. “Mentre solcavamo le acque a bordo della motovedetta che ci avrebbe condotto al molo Favaloro l’ho sentito sussurrare ‘Quanta sofferenza, quanta sofferenza…’. Un bisbiglio che si è trasformato in un pianto mesto e malinconico. Ma il Papa non si è limitato a fare lutto, ha voluto toccare con mano la carne di Cristo, martoriata e crocifissa, ha consolato gli approdati”.
“Pietà e tenerezza: ecco la rivoluzione di Bergoglio” secondo l’ex parroco di Lampedusa. La stessa pietà e tenerezza che, ricorda, “tante volte ho visto nelle acque del Mediterraneo e in quell’ormai famoso molo Favaloro”. Per don Stefano quella di Papa Francesco a Lampedusa non è stata “una visita protocollare”. Sulla più grande delle Pelagie il Pontefice ha ridisegnato “le trame dell’ascolto, ha parlato la lingua del cuore”.
Era evitabile la tragedia del 3 ottobre? Sì per don Nastasi. “Abbiamo gridato a squarciagola, abbiamo pianto, abbiamo pregato, ma chi doveva e poteva fare ciò che era opportuno ha preso tempo, ha minimizzato… testavano il ‘modello Lampedusa’. Quella tragedia giunse come un lampo, veloce come il fuoco che avvolse subito il ponte del barcone da dove centinaia di somali e di eritrei guardavano la costa ormai vicinissima di Lampedusa”.
Un dolore che per don Stefano rimane impresso nel cuore, “come una stigmata”. “I miei ultimi giorni di servizio pastorale a Lampedusa si sono chiusi nel pianto”, conclude. Centinaia di uomini travolti da una morte di acqua e terrore. La stessa delle ultime 130 vittime annegate nel mare dell’indifferenza. Di nuovo (di Rossana Lo Castro)