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    Mielofibrosi, disponibile in Italia terapia mirata

    (Adnkronos) – Febbre, profonda stanchezza e debolezza, sudorazione notturna abbondante, forte prurito, dolori alle ossa e dimagrimento. Sono i sintomi principali della mielofibrosi, rara malattia cronica del midollo osseo, difficile da diagnosticare e da trattare, con un’incidenza di 700 nuovi casi in Italia ogni anno. Finora, infatti, le terapie a disposizione erano limitate, senza reali passi avanti nell’ultimo decennio. L’Agenzia italiana del farmaco ha approvato la rimborsabilità di fedratinib, una nuova terapia mirata attiva sia nei pazienti di nuova diagnosi che in quelli già trattati con la terapia standard, quando questa non è più in grado di gestire la malattia. Fedratinib ha dimostrato di controllare in maniera efficace la splenomegalia, cioè l’ingrossamento della milza, manifestazione clinica caratteristica della mielofibrosi, e i sintomi debilitanti correlati alla malattia, migliorando così la qualità della vita di questi pazienti. E’ quanto emerso questa mattina a Roma durante una conferenza stampa dedicata alle nuove opportunità nel trattamento e promossa da Celgene, ora parte di Bristol Myers Squibb.  

    “La mielofibrosiappartiene al gruppo delle malattie mieloproliferative croniche, che comprendono anche la policitemia vera e la trombocitemia essenziale – afferma Alessandro Maria Vannucchi, ordinario di Ematologia all’Università di Firenze e direttore Sod complessa di Ematologia dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze -. Nella maggior parte dei casi colpisce persone fra i 60 e i 70 anni. Il termine ‘mieloproliferative’ indica che si tratta di un’alterazione in alcune cellule staminali presenti nel midollo osseo, che induce una proliferazione eccessiva di altre cellule ematiche. Si nota la graduale comparsa di tessuto fibroso, che modifica definitivamente la struttura del midollo osseo, non consentendone più il corretto funzionamento emopoietico, ossia la normale produzione delle cellule del sangue. Quest’ultima si sposta dal midollo osseo alla milza, causando l’ingrossamento di quest’organo”.  

    La splenomegalia “si verifica – continua Vannucchi – in quasi tutti i pazienti ed è responsabile di una serie di disturbi, soprattutto gastrointestinali. La milza ingrossata comprime gli organi vicini, in particolare stomaco e intestino. Il paziente avverte difficoltà nella digestione, sensazioni di pesantezza allo stomaco, fastidio a livello dell’addome e sazietà anche dopo aver mangiato poco, dolori addominali e funzioni intestinali irregolari, con episodi di diarrea e stitichezza. In alcuni casi, la milza è così ingrossata da occupare gran parte dell’addome fino a comprimere i polmoni, causando tosse secca e dolore alla spalla sinistra, e i reni, con difficoltà a urinare”.  

    “Il trapianto di cellule staminali rappresenta a oggi l’unico approccio curativo, caratterizzato però da limiti importanti: innanzitutto è usualmente effettuato a persone di età inferiore a 70 anni, inoltre serve un donatore compatibile, preferibilmente scelto in ambito familiare perché abbia caratteristiche simili al ricevente – spiega Francesco Passamonti, ordinario di Ematologia all’Università dell’Insubria di Varese e direttore Ematologia Asst Sette Laghi di Varese -. I pazienti che possono essere indirizzati al trapianto non devono presentare gravi comorbidità e solo il 5-10% è candidabile a questa procedura impegnativa, caratterizzata da una mortalità a 5 anni compresa fra il 10 e il 60%”.  

    La causa della mielofibrosi “non è chiara – continua Passamonti – ma più della metà dei pazienti presenta una mutazione del gene responsabile della sintesi di una particolare proteina, detta Jak2, implicata nel processo emopoietico. Negli ultimi anni è profondamente cambiata la gestione della malattia, grazie a terapie mirate che hanno come bersaglio proprio le proteine della famiglia Jak2. Dopo un periodo compreso fra 3 e 5 anni, sappiamo però che circa la metà dei pazienti trattati con l’attuale terapia standard, ruxolitinib, un inibitore di Jak, perde la risposta al farmaco”.  

    Da qui “l’importanza dell’approvazione della rimborsabilità di fedratinib da parte di Aifa – sottolinea Vannucchi – che consente di rispondere a necessità cliniche ancora insoddisfatte, per pazienti che hanno urgente bisogno di nuove terapie. Per la prima volta in quasi un decennio senza progressi, entra nell’armamentario terapeutico una nuova molecola. Fedratinib, un inibitore selettivo della kinasi Jak 2, è una terapia mirata orale, che ha mostrato riduzioni clinicamente significative del volume della milza e dei sintomi, in pazienti in cui la malattia è progredita durante il trattamento con ruxolitinib o non trattati in precedenza con inibitori Jak”.  

    Esistono due forme di mielofibrosi: primaria, cioè non dovuta ad altre malattie ematologiche preesistenti, e secondaria, che costituisce l’evoluzione di un’altra malattia mieloproliferativa cronica, come la policitemia vera o la trombocitemia essenziale. Aifa – è emerso dall’incontro con la stampa – ha approvato la rimborsabilità di fedratinib per il trattamento della splenomegalia legata alla malattia o dei sintomi in pazienti adulti con mielofibrosi primaria, mielofibrosi post-policitemia vera o mielofibrosi post-trombocitemia essenziale, che sono naïve agli inibitori Jak o sono stati trattati con ruxolitinib.  

    “L’efficacia della molecola è stata evidenziata dagli studi Jakarta e Jakarta-2 – conclude Passamonti – Obiettivo primario di entrambe le sperimentazioni, in cui l’Italia ha svolto un ruolo di primo piano, era il tasso di risposta splenica, definita come una riduzione superiore o uguale al 35% del volume della milza, misurato per via strumentale, rispetto al volume misurato al basale, ossia prima di iniziare la terapia. Lo studio Jakarta ha incluso pazienti non trattati in precedenza con ruxolitinib e il 47% ha ottenuto la risposta splenica alla fine del sesto ciclo di terapia. Il tasso di risposta ai sintomi, definito come la percentuale di pazienti con una riduzione di almeno il 50% del punteggio totale dei sintomi rispetto al valore basale, è stato raggiunto dal 40% dei pazienti alla fine del sesto ciclo.  

    Lo studio Jakarta 2 ha arruolato pazienti già trattati con ruxolitinib, che non traevano più beneficio da questa terapia, e ha dimostrato una risposta splenica in oltre il 30% dei casi e una riduzione dei sintomi nel 27% dei pazienti. Inoltre, dallo studio ancora in corso Freedom è emersa la sicurezza della molecola a lungo termine. L’impatto di fedratinib nel miglioramento della qualità di vita è significativo, perché permette di controllare la malattia, riducendo le complicanze e le ospedalizzazioni”.