(Adnkronos) – “Una scena di quotidianità: un soldato osserva una zingara che sta allattando il suo bambino – nuda, impudica – figure inserite in un paesaggio”. Protagonista “il miracolo della natura, un cielo squarciato da un fulmine”. È ‘La tempesta’ di Giorgione, raccontata da Giovanni Carlo Federico Villa, autore della monografia dedicata all’artista di Castelfranco, uno dei maestri della Scuola Veneta. L’ultimo volume della collana d’arte del gruppo Menarini, a cura di Silvana editoriale, presentato a Venezia sabato 15 ottobre, è un viaggio che, da una Venere all’altra, porta fino all’Olympia di Manet. Dalla Venezia del Cinquecento – stagione di Palma il Vecchio, Sebastiano del Piombo, Tiziano – fino agli impressionisti: l’eredità, l’impronta del Giorgione è nella “dolcezza di uno sguardo, la delicatezza di uno sfumato, la capacità di raccontarci il metallo con le sue rifrazioni – elenca Villa – di rendere nell’immagine di un’anziana, che si porta la mano al petto con un piccolo filattero su cui è scritto ‘Col tempo’, i segni” dei tanti inverni ormai alle spalle, “in una bocca sdentata, lo sguardo che ha tutto il peso degli anni, i capelli fatti di fili sottilissimi”.
Le magie della pittura tonale. Se oggi un suo quadro fosse sul mercato, avrebbe un valore enorme. “Milioni di euro”, ma lo storico dell’arte spiega che è difficile definire una cifra “visto che tutti i dipinti certi di Giorgione sono passati di proprietà tra il 1600 e la metà dell’Ottocento. Quindi non abbiamo avuto sul mercato opere di Giorgione da oltre 150 anni a questa parte, né potremmo averle, perché adesso c’è forse un’unica opera” che potenzialmente sarebbe nella condizione di arrivarci. Se mai succedesse, magari non raggiungerebbe i valori di Tiziano, “il ‘principe dei pittori’, il più pagato in vita e il più pagato post mortem”, ragiona Villa, ricordando anche il maxi investimento affrontato dalla National Gallery di Londra, insieme a quella di Edimburgo, nel 2008 e nel 2012 per due suoi dipinti, ogni volta intorno a 50 milioni di sterline. Ma comunque “su questi artisti non c’è gara”, assicura.
Quando Giorgione è in attività “siamo ancora nel primo decennio del Cinquecento – invita a riflettere Villa – e la rivoluzione copernicana è raccontare qualcosa di semplice” rompendo i canoni dell’arte dell’epoca, “andando oltre”. Lo ha fatto un artista misterioso. “Il suo nome non è scritto in alcuna opera”, scriveva Gabriele D’Annunzio, parlando di lui. Eppure “tutta l’arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione”.
“Il mio Giorgione? È un pittore inafferrabile – dice Villa – Anche io sono convinto che le opere certe che possiamo attribuirgli siano 5 o 6”. Inafferrabile al punto che “su ‘La tempesta’ sono stati scritti più di 300 saggi e 5 grandi libri”. Ai tempi si diventava maestri a Venezia in ambito pittorico a 14-16 anni e “lui inizia all’età giusta”. Accanto al Rialto c’erano le botteghe dei grandi artisti. L’idea del colore “saturo e intensissimo – analizza Villa – Giorgione la prende da Cima da Conegliano, l’interesse per il paesaggio e la natura da Giovanni Bellini. Mette il tutto insieme in un unico grande linguaggio, in una Venezia che fiorisce ed è letteralmente la nuova Atene”.
I committenti di Giorgione sono “una nobiltà di mercanti profondamente colta, uomini di lettere, magistrati, senatori”. E lo portano a spingersi in avanti. Nel 1509 dipinge sulla facciata del Fondaco dei tedeschi, nel cuore commerciale di Venezia, “una donna nuda, monumentale, alta quasi due metri, vestita solo della sua bellezza”, racconta l’esperto. La ‘Venere dormiente’, invece, frutto della collaborazione tra Giorgione e uno dei suoi allievi, proprio Tiziano, “mostra i meravigliosi tessuti della tradizione veneziana. Lei si è spogliata, li ha gettati sull’erba e si è addormentata. Da questa immagine femminile parte una stagione formidabile”, e di artista in artista – da Giorgione a Palma il Vecchio, e da lui a Tiziano, e alla sua Venere di Urbino – supera i confini del tempo.
“La Venere di Urbino diventerà poi tante Veneri – osserva l’esperto – quella dormiente di Paris Bordon, l’immagine rovesciata in uno dei capolavori di Velasquez (e della pittura spagnola del Seicento), che mostra solo allo specchio il volto della fanciulla. E appunto l’Olympia di Manet. Con questa carrellata si capisce cosa è stato Giorgione. È l’uomo che, partendo da Giovanni Bellini, si fa ‘fil rouge’ di una storia che con Tiziano, Tintoretto, Paolo Veronese diventerà quella pittura europea che nessuno saprà più mutare, fino proprio agli impressionisti. È la pittura del Giorgione a darci il senso della modernità, è una pittura che risorge e una Venezia che trionfa”.
C’è un filo che da tempo lega Menarini al mondo dell’arte, e lo ribadisce il presidente del gruppo, Eric Cornut, parlando anche del periodo difficile che stiamo attraversando e del ruolo delle aziende. Cornut chiama in causa tre parole: dubbio, fiducia, speranza. “Oggi molta gente dubita, e tocca a noi dare risposte. Dopo Covid c’era questa idea di tornare a fare le cose come prima o forse meglio e invece continuano le sfide, e la gente dubita. Il ruolo dei media, degli imprenditori e degli attori economici è molto importante per mostrare che c’è un domani, c’è un futuro. E la farmaceutica è essenziale in questo dibattito. Chi vuole partecipare con delle proposte deve meritarsi la fiducia. E questa viene dai valori che si rappresentano, dal modo di fare, da chi siamo e come ci comportiamo. Il terzo punto è la speranza: in città italiane bellissime come Firenze, Venezia, non si può non pensare a questo formidabile capitale, a quello che hanno rappresentato per l’evoluzione della civiltà. E quando si vede tutto questo ci si dice che c’è sempre speranza, che domani le cose andranno meglio. In fondo anche il nostro mestiere, la nostra missione è dare speranza. Speranza al paziente e a chi lo accompagna, che, qualsiasi cosa succeda – chiosa Cornut – faremo tutto perché la gente abbia ogni momento a disposizione la cura che merita e di cui ha bisogno”.