(Adnkronos) – “E’ necessario che vengano revisionati i Drg per gli interventi chirurgici” nel tumore al seno “passaggio fondamentale per avere dei codici adeguati. La richiesta non è solamente per una questione puramente economica ma anche per il benessere psicologico della paziente. Ad oggi, per ogni ricostruzione dopo intervento chirurgico di asportazione della ghiandola mammaria, l’ospedale subisce una perdita di circa 1700 euro a paziente. Questo comporta spesso una scissione dei due interventi, che vengono effettuati in tempi diversi”. Così Riccardo Masetti, direttore Uoc Chirurgia Senologica, policlinico Gemelli e presidente di Komen Italia, oggi a Roma, all’evento di presentazione di un documento programmatico di indirizzo politico (Policy Brief) focalizzato sul tumore alla mammella, realizzato con il contributo non condizionante di Pfizer.
“Esistono sistemi di rimborso fermi al 1995, che vanno in direzione opposta alla prevenzione e non tengono conto della qualità delle cure erogate – sintetizza Masetti -. Se contestualmente all’intervento facciamo la ricostruzione per evitare alle donne un trauma al risveglio, è un massacro economico perché, ricostruendo o meno” la parte asportata, “si ha lo stesso rimborso”, quindi ci si “perde economicamente”. La qualità “non è premiata anzi, penalizzata – sottolinea-. E se una donna ha un intervento poco invasivo e conservativo con pochissimo impatto fisico e puoi mandarla a casa il giorno stesso o il giorno dopo, il Drg si dimezza. Se la tieni almeno 2 notti in ospedale, hai un Drg doppio”. Anche in questo caso la situazione cambia da Regione a Regione. “In Trentino Alto Adige c’è un Drg di 7mila euro, nel Lazio di 3.200, meno della metà. D’accordo sulla sanità regionale, ma ci deve essere un sistema di equità che premia l’eccellenza, a prescindere dalla regione”, ripete Masetti.
Quello presentato oggi “non è un documento che risolverà tutti i problemi – osserva Masetti – ma ha concretizzato in 12 punti, nero su bianco, le richieste di clinici, associazioni pazienti e delle istituzioni”. Sul piano della diagnosi, “il Servizio sanitario nazionale italiano è di un buon livello – aggiunge – tuttavia ha bisogno di essere perfezionato in prevenzione, arma importantissima per generare risparmi economici. Gli screening alle donne tra 50 e 70 anni a livello regionale funzionano in maniera diversa e hanno accumulato dei ritardi negli anni del Covid: c’è del lavoro da fare. Una neoplasia diagnosticata in fase iniziale – ricorda – richiede approfondimenti” ed esami particolari “perché oggi l’obiettivo non è solo di curare il tumore al seno, ma la singola paziente”, in modo preciso con le cure più appropriate, personalizzate erogate nelle Breast Unit”.
A proposito dei centri di presa in carico multidisciplinare delle pazienti con tumore al seno, “i governi precedenti hanno fatto uno sforzo per la loro istituzione, ma – osserva Masetti – c’è una disuguaglianza a livello nazionale”. Bisogna “lavorare per garantire che una donna, indipendentemente che si ammali in Lombardia o Sicilia, possa curarsi nella sua regione evitando anche il dispendio del turismo sanitario”.
Il tema poi della riabilitazione “è importantissimo per la presa in carico della paziente. Non bastano le cure di eccellenza dal punto di vista oncologico – sostiene – perché la terapia crea dei danni per l’impatto che la malattia ha sul piano psicologico, relazionale sociale, sessuale, di possibilità di procreare, allattare. Se non cambiamo paradigma e non mettiamo pari dignità nel piano di cure, queste donne non sono in grado di tornare alla loro vita normale e piena”.
Sul diritto all’oblio per i malati di cancro, “un atto dovuto a queste persone – secondo Masetti – per dare la possibilità di tornare alla normalità”, è intervenuto anche Domenico Corsi, di Fondazione Aiom (Associazione italiana oncologia medica) che ha ricordato la campagna portata avanti dall’ente con la raccolta di “oltre 100mila firme” per sensibilizzare “le istituzioni sulla necessità di un diritto che definisce guariti i pazienti che hanno avuto un tumore in età pediatrica, dopo 5 anni dalla guarigione clinica e dopo i 10 anni, nel caso di una diagnosi in età adulta. Sono 950mila persone” in Italia, “che hanno la stessa speranza di vita di coloro che non hanno avuto il tumore”, specifica Corsi, ma hanno difficoltà ad accedere a un muto, attivare un’assicurazione, trovare lavoro o adottare dei figli.