(Adnkronos) –
Trent’anni fa inizia Mani Pulite. Lunedì 17 febbraio 1992, nel suo ufficio in via Marostica 8 a Milano, al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa viene arrestato per concussione per una tangente da 14 milioni di vecchie lire che gli viene consegnata dal giovane imprenditore Luca Magni. Sono le 17.30 quando si realizza l’operazione – messa a punto dall’allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro e dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani – che smaschera il presidente del Pat. Prende così il via la più clamorosa inchiesta giudiziaria italiana.
E’ nel 1993 che Tangentopoli conosce la sua massima espansione, mentre la Prima Repubblica cade sotto i colpi degli avvisi di garanzia, la mafia torna ad alzare il tiro a suon di stragi e attentati, l’economia del Paese subisce un tracollo e ben 70 procure lungo la Penisola avviano filoni sulla corruzione nella pubblica amministrazione sviluppando procedimenti a carico di 12mila persone.
Nella cittadella giudiziaria milanese le indagini alzano il tiro sul sistema delle imprese e sulla politica. Nessuno viene risparmiato: dopo il ‘sistema Milano’ e i provvedimenti a carico dei vertici di Psi e Dc, che ‘dominano’ il 1992, a partire dal 1993 le inchieste coinvolgono un po’ tutti, dal Pci-Pds alla Lega e, tra i colossi dell’economia, la Fiat, l’Eni, l’Enel, l’Olivetti, la Montedison, e per la prima volta il gruppo Fininvest. Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo sono i volti del pool della procura guidata da Francesco Saverio Borrelli. L’unica donna, Tiziana Parenti, lascia presto il suo posto ai giovani colleghi Francesco Greco e Paolo Ielo.
Il 1993 si apre con il primo ‘no’ del Parlamento alla procura di Milano e ad Antonio Di Pietro: con 180 voti contrari, il 13 gennaio la Camera respinge l’autorizzazione a procedere richiesta per Giancarlo Borra, deputato democristiano di Bergamo, finito nelle maglie di Tangentopoli e divenuto, a Montecitorio, il ‘caso’ sul quale provare le forze in vista di ben altro dibattito parlamentare, quello per l’autorizzazione a procedere richiesta, in 122 pagine di accuse, nei confronti del leader socialista Bettino Craxi, raggiunto da un avviso di garanzia nel dicembre del 1992. Ed è proprio il segretario nazionale del ‘garofano’ a sferzare i colleghi parlamentari con un acceso discorso alla Camera nel quale denuncia “un gioco al massacro in piena regola” per il quale lancia la proposta che a lungo ha diviso la giustizia dalla politica: una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle inchieste milanesi, soprattutto capace di far luce sui finanziamenti registrati dalla politica, se possibile, negli ultimi vent’anni. La proposta cade nel vuoto mentre le inchieste procedono.
Il 29 gennaio, insieme a una nuova raffica di avvisi di garanzia relativi al filone dell’energia, viene perquisita la segreteria amministrativa nazionale del Psi, in via Tomacelli a Roma. Craxi parla di ‘golpe’. Ma per lui è l’inizio della fine: il 9 febbraio lascia la segreteria del partito. Partiti in mille pezzi, la politica cerca di riformarsi Bettino Craxi non è che il primo dei segretari nazionali del pentapartito a ‘lasciare’ la loro direzione in seguito alle inchieste milanesi.
Il 25 febbraio tocca a Giorgio La Malfa: accusato di un finanziamento illecito, il politico lascia la segreteria nazionale del partito repubblicano. Pochi giorni dopo è Ciriaco De Mita, già segretario nazionale della Dc, a lasciare la presidenza della Commissione bicamerale per le riforme, in seguito all’inchiesta scandalo sulla ricostruzione dell’Irpinia che coinvolge il fratello Michele. Nemmeno due settimane dopo Renato Altissimo si dimette dalla segreteria del partito liberale. La fine di marzo segna la fine della segreteria del Psdi per Carlo Vizzini. A giugno si scioglie la Dc: il 22 di quel mese il leader del movimento referendario Mario Segni abbandona Piazza del Gesù. Il giorno dopo, il segretario Mino Martinazzoli decreta la fine del biancofiore. La geografia dei partiti italiani va in mille pezzi e la politica cerca di riorganizzarsi, a cominciare dalle riforme anticorruzione che rappresentano il tentativo di aprire un dialogo con la magistratura.
Nel 1993 vengono approvate misure legislative significative: la legge Merloni sugli appalti prevede regole più trasparenti e la cancellazione dall’albo dei costruttori per i corrotti, ‘rivoluzionaria’ la riforma dell’articolo 68 della Costituzione che regola le garanzie degli eletti. Scompare il divieto di indagare sui parlamentari a meno che le Camere stesse non abbiano dato il loro consenso.
L’autorizzazione a procedere resta solo per l’arresto “salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna”, o se il parlamentare in questione ”sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”. L’autorizzazione resta necessaria, inoltre, per poter svolgere perquisizioni personali e domiciliari, e per intercettare, in qualsiasi forma, conversazioni, comunicazioni o corrispondenza riferita ad un parlamentare. Ma che la politica fosse pronta a rinunciare a un suo importante beneficio, lo si era capito già nell’estate precedente quando, ai primi d’agosto, chiamata a decidere su altre quattro richieste di autorizzazioni a procedere inviate dalla procura di Milano nei confronti di Bettino Craxi, e nonostante l’accesa difesa dell’ex segretario socialista, l’assemblea, a maggioranza, aveva deciso per il ‘sì’, abbandonando sostanzialmente il leader socialista al suo destino.
Nel frattempo, le indagini si allargano oltre i confini della politica e nell’autunno del 1993 viene arrestato il giudice milanese Diego Curtò. Qualche mese dopo e una nuova ondata di arresti parte dalla cittadella giudiziaria milanese rivolta, questa volta, verso le forze dell’ordine: il 21 aprile 1994, 80 uomini della Guardia di finanza e 300 personalità dell’industria sono accusate di corruzione. A giugno si scopre che nell’inchiesta delle cosiddette ‘Fiamme sporche’ è coinvolta anche la Fininvest. Alcuni giorni dopo, un manager della Fiat ammette la corruzione con una lettera a un giornale.
A ottobre l’allora ministro Biondi fa partire la prima ispezione contro i giudici, ma per gli ispettori, dopo lunghi interrogatori, le inchieste del pool sono tutte corrette. A novembre gli inquirenti trovano una prova importante perquisendo l’abitazione di uno dei legali di Fininvest ed ex ufficiale della Gdf, Massimo Maria Berruti: si tratta della prova, secondo il pool, che Berlusconi avrebbe ordinato di inquinare le prove sulla corruzione Fininvest. Il 21 novembre del 1994, su ordine del procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, i carabinieri notificano a Berlusconi l’invito a comparire e gli comunicano due dei tre capi d’imputazione a lui attribuiti.
La notizia viene rivelata in esclusiva l’indomani dal ‘Corriere della Sera’ e il Cavaliere accusa i magistrati di aver violato il segreto istruttorio. Le indagini della procura di Brescia vedranno i magistrati prosciolti dall’accusa di violazione del segreto e le accuse di Berlusconi vengono presto archiviate.
Il 23 novembre, l’assicuratore Giancarlo Gorrini, va al ministero della Giustizia e denuncia Di Pietro: lo avrebbe ricattato e avrebbe preteso una lunga lista di favori: un prestito di 100 milioni senza interessi, una Mercedes, l’affidamento alla moglie, l’avvocato Susanna Mazzoleni, di tutte le cause della sua compagnia, l’accollo di tutti i debiti contratti alle corse dei cavalli da Eleuterio Rea. Il giorno dopo, Biondi avvia un’inchiesta parallela sul magistrato. Il giudice De Biasi è incaricato di condurre l’inchiesta. Il 26 novembre, Di Pietro viene avvertito che al ministero gli stanno preparando una ‘polpetta avvelenata’.
Dopo essersi consultato con i colleghi del pool, decide di redigere una memoria da inviare al Csm. Poi cambia idea e il 6 dicembre, dopo l’ultima requisitoria per il processo Enimont, si toglie la toga e si dimette dalla magistratura con una lettera accorata: “Me ne vado in punta di piedi con la morte nel cuore”. E’ la fine di Mani Pulite.
Oggi Di Pietro, dopo un’esperienza politica, fa l’avvocato, solo Paolo Ielo svolge ancora la funzione di magistrato a Roma. Gherardo Colombo ha fatto una profonda analisi di quegli anni e ha firmato la prefazione del libro di Stefano Cagliari, figlio dell’ex presidente dell’Eni arrestato e suicida in carcere. Francesco Greco dopo aver guidato la procura di Milano è in pensione dallo scorso novembre: un addio tra i veleni con l’ex collega Piercamillo Davigo che si è fatto portavoce di una sua ipotetica inerzia (il gip di Brescia ha archiviato la posizione di Greco) sulla presunta ‘loggia Ungheria’.
Proprio Davigo, ex componente del Csm, ora rischia il processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per aver divulgato verbali coperti da segreto. L’udienza che dovrà sancire l’inizio del processo o il proscioglimento dalle accuse cade, quasi come una beffa del destino, il 17 febbraio a 30 anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa. (di Antonietta Ferrante)