Quando si leggono certi studi non si capisce mai dove si va a parare. Quasi che, per effetto della minoranza (e qui spesso nascono le solite menate sulla discriminazione), chi fa scelte meno comuni, o comunque opposte al ‘trend’ nazionale, non rappresenta un buon modello sociale. Lo si evince da un fattore che, in termini statistici, sembrebbe sempre incidere pesantemente: il titolo di studi. In alcuni casi infatti, limitandosi a racchiudere i campioni di rilevamento – anche qui – la laurea diviene ‘un valore aggiunto’. Come se chi fa determinate scelte ma figura tra i non laureati, ‘potrebbe’ aver subito le influenze dell’ignoranza. Diversamente, poco viene invece considerato che, quanti possono ‘permettersi il lusso’ di laurearsi a 25/30 anni, è perché hanno alle spalle una famiglia capace di sostenerne economicamente gli studi, alimentando allo stesso tempo una sorta di ego e di arrivismo che certo, in termini di socialità, non incidono poi positivamente.
E’ interessante in tal senso sfogliare l’ultimo ‘Report Conciliazione lavoro e famiglia anno 2018’ stilato dall’Istat. Intanto emerge subito che nel Mezzogiorno, con almeno un figlio a carico una donna su cinque non ha mai lavorato per poter prendersene cura. Un dato che, se spalmato a livello nazionale, raggiunge l’11,1%, contro il 3,7% della media europea. Qui però andrebbe specificato che nel resto d’Europa la donna che lavora ha molta più assistenza ed incentivi da parte dello Stato mentre, come è ormai notorio, da noi vige l’abbandono totale.
Dunque, sono concentrate nel Mezzogiorno, e ‘senza laurea’, le madri che ‘rinunciano’ a lavorare pur di seguire un figlio. Le laureate invece, hanno avuto interruzioni ‘temporanee’ per seguire i figli i primi mesi, per poi tornare al lavoro.
Premesso che, in minoranza, ci sono uomini che hanno in qualche modo modificato la propria vita in occasione della paternità (il 22,5%) tuttavia nella coppia con ambedue lavoratori, rispetto all’uomo (l’11,9%, circa 500mila), è sempre la donna (38,3%, oltre un 1 mln) a dover fare delle rinunce o modifiche in determinate circostanze.
Ora, tralasciando il discorso relativo alle madri non lavoratrici, c’è da sottolineare che, continuare a lavorare, e riuscire a dedicarsi contemporaneamente anche alla famiglia è sempre più complicato. Oggi almeno una donna su due è infatti chiamata a fare i salti mortali, rinunciando spesso anche a tanto nell’ambito della sua carriera lavorativa, costretta a riduzione di orari, incentivi, ed altro. Questo per cercare di non inficiare gli introiti del coniuge o compagno, cercando così di non ‘destabilizzare’ più di tanto – almeno economicamente – ‘l’azienda famiglia’.
La cosa che impressiona è che attualmente nel Paese ben oltre 12 milioni di persone (il 34,6%), per una fascia di età che va dai 18 ai 64 anni, si prende cura di figli minori, disabili, anziani o parenti malati. Un ‘range’ nel quale spiccano gli oltre 10 milioni di genitori con figli minori ai 15 anni.
Insomma come la si mette, va comunque male. Se la donna non lavora non produce redditi, ma almeno può crescere il figlio ‘come si dovrebbe’ (in termini affettivi, di presenza e guida), diversamente, chi non può rinunciare al lavoro (perché ha delle spese fisse, o per ‘recuperare’ il frutto degli impegni universitari), deve ‘accontentarsi’ di gestire il lavoro al minimo. Quindi, comunque la si voglia vedere, a nostro avviso il dato che salta agli occhi è uno soltanto: quanto amore e sacrificio da parte di queste mamme, rispetto al totale menefreghismo di uno Stato che ci vede tutti come ‘numeri’ sui quali fondare le premesse di un’economia sempre meno umana…
Max