Per il medico quello che più conta è che il paziente con malattie infiammatorie croniche intestinali (Mici) sia curato da un professionista preparato e possa accedere facilmente a cure prevedibili, condivise e standardizzate. Per il paziente la cosa più importante è essere accolto e supportato in un percorso di cura condiviso e adatto alle proprie esigenze. Due pianeti lontani, che parlano lingue diverse. Azzerare le distanze e trovare una via di dialogo non ha solo vantaggi in termini di aderenza alle terapie e miglioramento della qualità di vita (specie per pazienti giovani alle prese con la difficoltà di accettare la malattia), ma anche risvolti economici.
Un’indagine recente “ha rilevato che solo l’11% dei medici coinvolgevano attivamente i pazienti nel percorso di cura. Incrociando questi dati con dati di costo, è venuto fuori che se il medico coinvolge attivamente il paziente nel percorso di cura c’è un risparmio di costi diretti del 20% e una percentuale di assenza dal lavoro inferiore al 25%”, segnala Salvo Leone, direttore generale dell’associazione Amici Onlus, oggi durante l’evento ‘Made for freedom’, promosso da Takeda, che accende i riflettori sui bisogni insoddisfatti dei pazienti e sulla di flessibilità delle terapie: un concetto che viene presentato anche in relazione alla nuova formulazione sottocutanea dell’anticorpo monoclonale vedolizumab, farmaco biotecnologico a selettività intestinale, già disponibile in formulazione endovenosa per il trattamento di pazienti adulti con colite ulcerosa o malattia di Crohn attiva da moderata a severa.
“Se il medico spende tempo a interagire col paziente, c’è anche un contenimento dei costi diretti, oltre che un miglioramento della qualità di vita”, evidenzia Leone che porta anche un altro dato: “E’ emerso da un’altra indagine che l’11% dei pazienti interrompe il trattamento e non lo dice al medico. Se aggiungiamo un altro 13% che lo interrompe e lo comunica, si arriva a un paziente su 4 (su un campione di 500 intervistati)” che smette di curarsi. E questo viene visto dal Dg di Amici come “un fallimento dell’alleanza terapeutica”. “Il primo punto è l’aderenza alle terapie”, incalza Leone.
“Se ci sono innovazioni che possono permettere in un prossimo futuro di facilitare la vita ai nostri pazienti, sono sempre ben accette”, riflette Alessandro Armuzzi, Policlinico Universitario Agostino Gemelli – Irccs di Roma, docente di Gastroenterologia all’università Cattolica. Si parla di “rendere più liberi con la stessa efficacia i nostri pazienti, di essere flessibili con lo stesso tipo di terapia. Sono cose positive. E un conto è vedere i risultati di un trial registrativo, un conto è vedere su larga scala quello che succede veramente negli ambulatori”.
“Noi medici – aggiunge Ambrogio Orlando, ospedale Villa Sofia Cervello, Palermo – dobbiamo fare uno sforzo per cercare di soddisfare sempre di più i bisogni non soddisfatti dei pazienti, condividere con loro le scelte terapeutiche, farli sentire parte attiva. Abbiamo oggi strumenti e farmaci che ci consentono di poter allargare gli orizzonti del nostro armamentario terapeutico”. Innovazione, gli fa eco Leone, “significa liberare risorse in un sistema che non ha risorse illimitate”.
La relazione medico-paziente è una chiave per raggiungere questo obiettivo, è il messaggio del direttore generale dell’associazione Amici. E su questo fronte bisogna fare di più, a giudicare da quanto emerge dalle indagini che si sono susseguite nel tempo. Una per esempio “mostra come le priorità numero 1 e numero 2 del paziente sono al settimo e all’ottavo posto nella lista del medico e viceversa: la prima e la seconda priorità del medico sono all’ottavo e al quinto posto nella lista del paziente. Creare una relazione è necessario, anche se faticoso e impegnativo”.
Per quanto riguarda i farmaci, qual è la sfida per il futuro? “Chi produce farmaci si deve concentrare su un aspetto molto importante: non conta solo la guarigione clinica, ma anche avere farmaci che abbiano modalità di somministrazione che garantiscano buona qualità di vita”, continua Leone.
“Avere un farmaco che funzioni bene è un vantaggio”, precisa, ma è un vantaggio anche “se permette al paziente di non stare 4 ore in ospedale, se garantisce una migliore qualità di vita e permette a chi ne ha bisogno di non assentarsi dal lavoro, quindi più produttività. L’invito che lanciamo alle aziende farmaceutiche è di investire in questo campo. Poi bisogna far comprendere a chi i farmaci li paga che un farmaco può essere più costoso, ma se permette di controllare la malattia può essere anche un risparmio in un’altra voce di spesa”.
La logica deve essere anche quella di dare a ogni paziente la cura giusta, ma anche nella modalità più su misura per le sue esigenze di vita. “Rivendico la centralità del medico che stabilisce la cura e la strategia migliore – conclude il Dg di Amici Onlus – ma esistono aree di confronto. Si può dire: ‘Dottore, preferisco venire in ospedale a fare l’infusione’, oppure ‘non posso permettermi di mancare dal lavoro e preferisco un’altra modalità di somministrazione della cura’. Serve un coinvolgimento attivo del paziente e alzare il livello di fiducia reciproco, per il bene del malato e per un servizio sanitario sostenibile”.