(Adnkronos) – Soffrire di Long Covid è “molto meno probabile” dopo avere contratto un’infezione da variante Omicron di Sars-CoV-2, che dopo un contagio da coronavirus pandemico nella sua versione originale. E’ la conclusione di uno studio svizzero condotto su oltre mille operatori sanitari, che sarà presentato al Congresso della Società europea di microbiologia clinica e malattie infettive (Eccmid 2023, 15-18 aprile, Copenaghen – Danimarca) da Carol Strahm della Divisione di Malattie infettive ed Epidemiologia ospedaliera dell’Ospedale cantonale di San Gallo.
La ricerca ha coinvolto 1.201 operatori di 9 network sanitari elvetici, per l’81% donne, di età media 43 anni, reclutati fra giugno e settembre 2020. L’obiettivo degli autori era valutare i tassi di sequele post-Covid nei ‘camici’ infettati da virus Sars-CoV-2 di tipo ‘wild’, dalla prima variante Omicron (BA.1) o da entrambi, rispetto a controlli non contagiati. I partecipanti sono stati sottoposti regolarmente a test Covid-19 (tamponi nasofaringei e test anticorpali), hanno fornito informazioni sul proprio stato vaccinale e hanno risposto a tre riprese – nel marzo 2021, nel settembre 2021 e nel giugno 2022 – a questionari online che indagavano su 18 sintomi di Long Covid e sui livelli di affaticamento. I disturbi persistenti riferiti più spesso includevano perdita di olfatto/gusto, stanchezza/debolezza, burnout/esaurimento, perdita di capelli.
In sintesi, Strahm e colleghi hanno osservato che gli operatori sanitari infettati dalla prima versione di Sars-CoV-2 avevano una probabilità di Long Covid fino al 67% maggiore rispetto a quelli non contagiati; un rischio aumentato che nel tempo scendeva al +37%. Tra gli infettati da virus wild, la maggior probabilità di fatigue rispetto ai non contagiati era del 45% maggiore all’inizio, per poi calare fino a raggiungere una differenza non statisticamente significativa. Per quanto riguarda invece i guariti da Omicron, rispetto ai non infettati non mostravano un rischio aumentato né di Long Covid né di affaticamento. Si è visto inoltre che reinfettarsi con Omicron dopo un precedente contagio da virus originale non comportava una probabilità maggiore di Long Covid, rispetto a una singola infezione da virus wild.
“Long Covid è un problema di salute pubblica significativo, con uno stato di malattia prolungato e a volte debilitante, opzioni terapeutiche limitate ed esito incerto”, spiega Strahm. Siccome “la maggior parte dei dati” disponibili sulle sequele post-infezione “provengono da persone che hanno contratto Covid-19 relativamente presto nel corso della pandemia, prima dell’emergere della variante Omicron verso la fine del 2021, con l’avvento di Omicron, il suo dominio globale e la conseguente esplosione di infezioni – precisa la ricercatrice – è fondamentale scoprire di più su chi è a rischio di Long Covid” ora “e perché”.
Riguardo ai dati raccolti, che indicano un minor rischio di disturbi persistenti post-infezione con Omicron, “possiamo solo avanzare delle ipotesi – dice Strahm – Probabilmente”, quanto osservato “è legato a una combinazione tra il fatto che la variante Omicron ha meno probabilità di causare malattia grave rispetto al virus wild-type (sappiamo infatti che il Long Covid è più comune dopo le forme gravi) e l’immunità acquisita attraverso una precedente esposizione al virus, ad esempio un’infezione subclinica senza sieroconversione”.
“Con Omicron ancora dominante a livello globale”, per la scienziata “i nostri risultati dovrebbero rassicurare chi si sta infettando adesso per la prima volta, così come chi ha già contratto l’infezione da virus originale. Tuttavia – puntualizza Strahm – è importante notare che i partecipanti al nostro studio erano soprattutto donne sane, giovani e vaccinate. I risultati potrebbero dunque essere diversi in una popolazione più malata, anziana e/o non vaccinata”.