LA MORATORIA ITALIANA SUL RICONOSCIMENTO DELLE UNIONI E DEI DIRITTI DEGLI OMOSESSUALI: LE COLPE E I RITARDI DEL VATICANO.

All’epoca della tesi di laurea mi sono occupato di tutti i reati sessuali sotto il profilo penale e medico-legale e più generalmente pressoché di tutti gli aspetti giuridici legati ai fenomeni della sessualità in un mastodontico lavoro di circa 3.600 pagine e sei volumi, né è venuto mai meno negli anni il mio interesse per un aspetto così pregnante della nostra dimensione esistenziale tale da assurgere per Sigmund Freud, padre della psicanalisi moderna, a espressione fondamentale della nostra stessa identità e della volontà di vivere. A distanza di anni dal mio lavoro accademico mi trovo a dover commentare ancora il ritardo colpevole della legislazione e della mentalità italiana sulla questione del riconoscimento e parificazione delle unioni e rapporti tra coppie omosessuali che rientra in un discorso più generale di discriminazione sociale e civile sulla base di un argomento così poco suscettibile di scelta,tranne che forse per chi abbia orientamenti bisessuali, come le tendenze e i gusti estetici e sessuali. Recentemente la Corte di Strasburgo sembra aver finalmente condannato l’Italia per questa “lacuna” del suo ordinamento, dopo il referendum irlandese che ha espresso un chiaro verdetto di favore verso il riconoscimento delle unioni in un paese a radicata e millenaria tradizione cattolica, che era rimasto l’unico in Europa, oltre a Italia e Grecia, a non essere dotato di uno strumento giuridico di riconoscimento e parificazione rispetto al matrimonio tra eterosessuali. Il problema tecnico-giuridico di fondo era stato evidenziato anche dalla vicenda e relative polemiche delle “nozze gay” celebrate dal Sindaco Marino presso il Comune di Roma, trattandosi per lo più di una cerimonia di ratifica o “omologazione” di matrimoni e unioni civili che i diretti interessati avevano già celebrato all’estero, in altri paesi U.E., in cui tali diritti e rapporti sono riconosciuti giuridicamente, parificati e tutelati al pari di quelli degli eterosessuali. Infatti, al di là delle posizioni, a nostro parere retrive e antigiuridiche, dell’allora prefetto di Roma e del Ministro dell’interno Alfano (ormai rientranti anche nella condanna della Corte di Strasburgo e quindi uscite perdenti dal confronto), rimane il fatto che il diritto U.E., il quale sancisce la non discriminazione di genere e la parità o uguaglianza di diritti tra cittadini europei, ha un ruolo sovraordinato, fortunatamente, comprese le sentenze della Corte di Giustizia (provvedimenti e normative self-executing) anche sulla Costituzione italiana, o meglio su quelle interpretazioni datate che,contro la lettera della Costituzione e lo spirito dei tempi,vale a dire la cosiddetta Costituzione vivente, tendono ancora ad interpretare strumentalmente l’art.29 come un articolo rivolto esclusivamente alle unioni eterosessuali,mentre la Costituzione letteralmente non parla necessariamente di matrimonio tra un uomo e una donna e dovendo piuttosto l’interpretazione del diritto interno conformarsi a direttive, sentenze e normative U.E. sovraordinate. Da questo punto di vista la Carta fondamentale del 1948 pare esser stata ancor più lungimirante e laica di circolari e orientamenti attuali prefettizi e del ministero dell’interno del 2015, quando usa la semplice espressione tutt’altro che omofoba e discriminante: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.”.In pratica il legislatore costituzionale, che potrebbe essere l’unico per il principio dei limiti delle clausole di salvaguardia alla sovraordinazione del diritto U.E., a poter porre ostacoli o “paletti” a norme e principi di tale ordinamento europeo all’interno dei confini nazionali (i c.d. “controlimiti” di cui alla sent.183/73 della Corte Costituzionale, ma qui siamo addirittura di fronte al caso inverso poiché la sentenza della Corte U.E. tutela precisi diritti umani e imprescindibili della personalità e identità,mentre sono certe applicazioni o interpretazioni del diritto interno che finiscono col mortificarle e per discriminare) , si limita a rimandare la definizione del concetto di famiglia al diritto naturale, cioè ad un concetto metastorico e,per certi versi,addirittura metagiuridico che, però, affonda le sue radici,come insegna lo Spirito delle Leggi di Montesquieu nella coutome, cioè in quella nozione costituzionale dinamica e vivente che è il costume sociale. Sotto questo profilo è difficile negare che rapporti,unioni e famiglie omosessuali,storicamente, siano esistite dall’inizio della storia dell’uomo,per iniziare da Achille e Patroclo o da Alessandro Magno ed Efestione,o Nerone e Sporo addirittura consacrati marito e moglie con rito religioso al tempo dell’Impero romano,ecc. e che quindi rientrino a tutti gli effetti nella nozione di diritto naturale, semmai tale concetto sia suscettibile di una qualche precisa o esatta definizione (come apprendiamo dalla visione del relativismo culturale fin dai tempi di Erodoto e il suo aneddoto esemplare sul confronto tra usanze funerarie di Greci e Indiani Callati). Inoltre il costume dei nostri tempi rivendica a chiare lettere,anche in termini statistici,onde evitare di perpetuare prassi discriminatorie in danno di intere fasce della popolazione, e in modo sempre più imperioso (vedasi la stessa vicenda di Monsignor Charamsa all’interno delle gerarchie ecclesiastiche: http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2015/10/03/la-confessione-del-monsignore-krzysztof-charamsa-io-felice-e-con-un-compagno_7db7c084-a206-4377-8c93-f2c3604a65f9.html ) , un’interpretazione del concetto di società naturale fondata sul matrimonio che non leda o discrimini gusti e orientamenti sessuali (http://www.istat.it/it/archivio/62168), o meglio che non discrimini nessun cittadino della Repubblica o straniero,men che mai europeo, per la legge comunitaria,che viva sul territorio della Repubblica (vedasi anche artt.2.3 e 22 Cost.) sulla base dei soli gusti,tendenze o orientamenti sessuali. Il secondo comma dell’art.29 della Costituzione individua peraltro l’unità familiare come valore prioritario della cellula sociale primigenia e rimanda alla legge ordinaria, che dunque può essere adeguata e modificata in qualsiasi momento a maggioranza ordinaria, per stabilire eventuali casi di limiti all’eguaglianza dei ruoli nei rapporti tra coniugi. Tale concetto di limite si riferisce,per quella che è stata da sempre la sua corretta e pressoché unanime interpretazione a priorità su precisi oggetti e momenti decisionali (ad esempio una decisione su un’operazione chirurgica d’urgenza sulla prole,sull’istruzione della stessa,ecc.) , non certo a limiti di genere o alla superiorità e inferiorità di ruolo,lettura anche questa abbondantemente superata dalla Costituzione vivente e dalle letture adeguatrici della stessa Corte Costituzionale che, dallo ius corrigendi dell’uomo capofamiglia sulla donna così come passato nelle visioni tradizionali delle versioni o visioni superate del Codice Rocco o dall’idea del reato di adulterio perseguibile,all’epoca per le donne, e comprensibile per la natura di “cacciatore” dell’uomo, sembra esser passata ad una visione moderna ed egualitaria che dimostra,comunque, quanto le nozioni di diritto naturale,famiglia e Costituzione vivente possano cambiare,civilizzarsi ed ammodernarsi col passaggio del tempo e col mutamento dei fenomeni di costume, essendo appunto, come avevano sostenuto Voltaire e Montesquieu,le rivoluzioni o cambiamenti di costume, più ancora di quelli legislativi, i fenomeni destinati ad incidere più profondamente in senso evolutivo sulle abitudini e sui comportamenti o la mentalità del corpo sociale. Dunque la nostra Costituzione non detta dei “controlimiti” che possano giustificare l’intervento o interpello della nostra Corte Costituzionale a salvaguardia di prassi discriminatorie e inoltre il governo italiano non sembrerebbe,nelle dichiarazioni, voler effettuare ostruzionismo,tanto più che la stessa Corte Costituzionale italiana e la stessa Suprema Corte di Cassazione, in più occasioni, sembrano essersi già espresse sul punto,richiamando il potere legislativo alla creazione di normative di tutela (http://www.nextquotidiano.it/la-corte-europea-condanna-litalia-riconosca-le-coppie-dello-stesso-sesso/ ).Tutto dunque è rimandato al legislatore ordinario,ma quale sorpresa se,leggendo tra le righe del nostro Codice Civile, cioè della nostra legge ordinaria, pur risalente al 1942,ci accorgessimo che, pur parlando lo stesso di marito e moglie e usando il termine coniugi, non contempla espressamente il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Dunque tutto diventa questione,come al solito, non di legge,ma di interpretazione e dunque, per correggere la situazione attuale, ed adeguarsi alla sentenza della Corte U.E.,potrebbe non apparire nemmeno necessaria una legge che combini l’ennesima discriminazione, cioè che finisca per definire e trattare in un certo modo i matrimoni tra coppie eterosessuali e per denominare “unioni civili o pachs”, cioè matrimoni di serie B, legiferando un diverso trattamento per i matrimoni tra persone dello stesso sesso o transgender. Infatti,per la precisione, l’art.117 del nostro Codice attuale quando parla di impedimenti, cioè di matrimonio contratto in violazione degli artt.84 e seguenti, testualmente si riferisce all’età dei nubendi,all’interdizione per infermità di mente,a rapporti stretti di parentela,affinità e adozione,al delitto e al divieto temporaneo di nuove nozze per fini di certezza di paternità come ratio per la donna per i 300 giorni successivi a scioglimento,annullamento,cessazione effetti civili del precedente matrimonio, ma non menziona espressamente un divieto di nozze tra persone dello stesso sesso. La Suprema Corte di Cassazione, da parte sua, sembra aver già cominciato a risolvere i problemi con delle interpretazioni al passo coi tempi e conformi al diritto U.E., superando le disposizioni letterali della legge italiana sul cambiamento di sesso che all’art. 31 del D. Lgs. n. 150/2011, comma 4, stabilisce formalmente che quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessualida realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Recentemente infatti la Cassazione, accogliendo un ricorso portato avanti da Rete Lenford e annullando le pronunce precedenti del tribunale di Piacenza e della Corte d’Appello di Bologna, ha sancito che non è più necessario,per le persone che abbiano biologicamente caratteri sessuali primari maschili un’operazione chirurgica di modificazione dei caratteri stessi e,in pratica, di castrazione, con tutte le prassi di “lavaggio del cervello” che spesso accompagnavano queste prassi penose, per poter ottenere l’attribuzione anagrafica del sesso sentito come proprio a livello psicologico,riconoscendo quindi, formalmente, una verità scientifico-psicanalitica che veniva predicata almeno dai tempi di Carl Gustav Jung e delle sue teorie sulla “sostanziale ambiguità o ambivalenza” umana,vale a dire che il vero organo che attribuisce i caratteri sessuali primari e secondari è anzitutto il cervello, cioè la psiche, prima che i trattamenti ormonali o altro,ormai ricavabile anche con protesi e trattamenti estetici o plastici grazie alla medicina contemporanea,ma che,rispetto all’orientamento sessuale dominante a livello psicologico,tutto questo potrebbe addirittura essere considerato un dettaglio (http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/20/cambio-sesso-allanagrafe-per-la-cassazione-non-e-necessario-intervento-chirurgico/1890334/  , sul punto insuperabile anche per comprendere i casi di suicidio e automutilazione o altro verificatisi nel passato a causa esclusivamente di ottusità sociale e legislativa: “Il transessuale e la norma”,attualmente edito da Aracne editrice, del mio Professore Alvaro Marchiori,docente di medicina legale,all’epoca, all’Università La Sapienza di Roma).In tale ottica vediamo dunque che appare innegabile, a maggior ragione di fronte a matrimoni tra persone dello stesso sesso con cittadini di altri stati della U.E.  celebrati originariamente negli Stati con legislazioni conformi al diritto U.E. e solo ratificati dal Sindaco di Roma Ignazio Marino in “seconda battuta” per usare un’espressione didascalica,la antigiuridicità dell’interpretazione prefettizia e del ministero dell’interno targato Alfano,passibile, a nostro modesto avviso, anche di sanzioni non solo in ambito comunitario,ma potenzialmente anche di risarcimento danni per attività discriminatoria. Infatti è dai tempi della sentenza n°227/2010 che la stessa Corte Costituzionale italiana ha spiegato che l’Autorità Giudiziaria e la Pubblica amministrazione italiane, in caso di possibili contrasti,in questo caso, come abbiamo visto di natura prettamente ermeneutica, tra norme U.E. e norme interne, debba sempre cercare anzitutto la soluzione interpretativa delle norme interne più conforme alle norme europee e che, solo in caso di insanabile contrasto (di palmare evidenza: cioè una norma imperativa che punisca l’omosessualità,come era quella del Codice sardo-piemontese,perché persino il “fascistissimo” Codice Rocco non reprimeva formalmente a livello penale tale condotta:http://www.giovannidallorto.com/saggistoria/tollera/tollera.html , provvedendo piuttosto il costume sociale e il diritto di polizia con confino,emarginazione,discriminazione e altro,una norma pubblicistica insomma che possa consentire di parlare in tal caso di atti contrari a norme imperative e buon costume, ovvero di un divieto esplicito civilistico, che abbiamo visto non risultare affatto tra gli impedimenti in senso tecnico), si debba ricorrere alla disapplicazione delle norme interne nazionali in favore del diritto U.E., esattamente come è avvenuto, a mio parere, nel caso della recente sentenza di Cassazione che richiamavamo sopra, che è passata come un treno sopra l’intero impianto normativo del D.lgs. 150/2011 e delle sue prassi medievali del “pentiti figliolo, mortifica la carne, convertiti o infine, se proprio ti senti femmina, castrati, così non se ne parla più….”. Il solo fatto che un armamentario giuridico del genere,specie dopo la sentenza di Cassazione e della U.E., rimanga ancora sulla carta e possa potenzialmente ancora legittimare altri danni e discriminazioni nel tempo, data la lentezza istituzionale a recepire le innovazioni e lo spirito dei tempi e data la frammentazione giuridica in cui si vive in Italia,tra mille interpretazioni e particolarismi e con sempre minori certezze e senso della presenza di uno Stato unitario, anziché esser stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Consulta per violazione degli artt.2,3 e 29 della Cost.,tra i tanti, dovrebbe indurre il parlamento e le istituzioni ad una riflessione ancor più seria rispetto a quella della questione della necessità di “una legge sulle unioni civili”, anziché di una legge sulla parificazione matrimoniale tout court dei rapporti tra coppie omosessuali o di un intervento ermeneutico adeguato che sarebbe stato sufficiente, in termini civilistici, se non vivessimo nel paese dell’incertezza del diritto e delle interpretazioni discriminanti o abnormi. Ma andiamo alle vere radici culturali del problema disvelate in tutta la loro eclatanza dal caso delle dichiarazioni di ieri,3 ottobre 2015, di Monsignor Krysztov Charamsa. Queste dichiarazioni provenienti pur sempre da un membro della gerarchia ecclesiastica cattolica suonano come lo squillo di tromba di un’autentica rivoluzione di coscienza interna alla Chiesa e in controtendenza con gli orientamenti consolidati della gerarchia ufficiale, Papa Bergoglio compreso. Il Monsignore Polacco ha infatti confessato la sua omosessualità e di avere addirittura un compagno, con cui vive da anni, il che mette anche in discussione la questione del celibato ecclesiastico come obbligo e forse prelude anche all’apertura, a mio avviso, di un più ampio dibattito a tutto campo sul divieto di sacerdozio femminile, cui invece altre confessioni cristiane, come la protestante e la anglicana, si sono aperte da tempo e con successo, fino addirittura a comprendere gli alti vertici delle gerarchie,infine Charamsa ha accusato chiaramente l’atteggiamento discriminante della Chiesa cattolica ufficiale e del Sant’Uffizio. Un conservatorismo irrazionale cui il pontificato di Bergoglio,inizialmente, sembrava dover porre fine,nelle aspettative comuni,mentre la cosiddetta “apertura al dialogo” sulla questione, ha finito per trasformarsi in un ripiego sulle posizioni antistoriche e discriminanti consuete con un atteggiamento di “umana comprensione” verso i cosiddetti “diversi” a cui si è indirizzato il messaggio che la Chiesa vuol loro bene,ma come ad una sorta di figli non sviluppati e rimasti,per ragioni inspiegabili, ad uno stato preadolescenziale o adolescenziale dello sviluppo psicologico prima che biologico. Si è parso dunque di assistere più che ad un confronto reale basato su acquisizioni scientifiche e sociali (l’omosessualità non è più definibile come una malattia mentale nel DSM4,ma neanche come disturbo del comportamento,di norma, nella psicanalisi contemporanea),ad una sorta di dibattito accademico o rotale canonistico sulla pretesa “immaturità” al matrimonio e ad altro, come avviene per le donne relativamente al sacerdozio, tacciate tradizionalmente di fatuità e frivolezza o meglio di caratteristiche psicologiche diverse dall’uomo che non consentirebbero loro una comprensione piena delle scritture e di rivestire l’abito talare e la dignità sacerdotale (la spiegazione ce la fornisce a chiare lettere l’omosessuale Michel Foucault in “Storia della Follia nell’età classica”).Dunque persone adulte e capaci di ragionamento e volizione trattate, di fatto,ancora nel terzo millennio, con una sorta di “deminutio capitis” a livello di diritti soggettivi o equiparate, per certi versi (impedimento a contrarre matrimonio) al pari di minus amens! In questi atteggiamenti integralistici e irrazionali a livello di interpretazione delle norme civilistiche e amministrative vigenti e in questa mancata apertura dello spirito ecumenico allo spirito dei tempi del terzo millennio sta la vera chiave di lettura delle cause della discriminazione sociale,in parte del mancato superamento di pregiudizi omofobici e anche forse di molte vicende che sono seguite a Roma,sede del Vaticano, alle aperture del Sindaco Ignazio Marino (http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_settembre_28/papa-marino-non-stato-invitato-ne-me-ne-organizzatori-b132663c-65c8-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml ).In tale ottica il caso Charamsa finisce per riaprire un dibattito archiviato troppo frettolosamente,in quanto scomodo, e con spirito di superficialità,rischiando di aprire anche una nuova linea di cesura,forse non meno dilaniante dello scisma avviato a suo tempo da monsignor Lefebvre, tra posizioni interne alla chiesa cattolica,nel caso in esame soprattutto nei paesi vicini al nord e centro Europa e popoli latini, esattamente come una differenza abissale si registra ormai da molti anni nell’approccio laico e aconfessionale,ma soprattutto di integrazione, parificazione e non discriminazione di Stati come Germania e Danimarca,stati scandinavi nel loro complesso e le posizioni di retroguardia, in termini di civiltà, di alcune frange dell’amministrazione italiana già evidenziate. La questione non pone soltanto problemi a livello pratico come il mancato riconoscimento di diritti di status,della personalità,ma anche di diritti successori,previdenziali,per il mancato riconoscimento della pensione di reversibilità del compagno gay,magari parte debole da assistere se svolgeva non un proprio lavoro autonomamente,ma mansioni equipollenti a quelle della comune casalinga, ecc., assistenziali, compreso l’elementare diritto a potersi recare in ospedale ad assistere il compagno malato,anche quando la famiglia di origine si opponga o ne faccia divieto,ma anche di diritti civili altrettanto elementari come la successione nei contratti,compreso quello di locazione, e di tutte le implicazioni che il concetto di rapporto umano e affettivo nel tempo comporta rispetto a un semplice rapporto sessuale occasionale (compreso il diritto a mantenere un tenore di vita pari a quello in costanza di rapporto,quando questo,dopo anni,sia venuto meno o entrato in crisi), o il sacrosanto diritto a costituirsi parte civile in un processo penale,e qui entra in gioco anche il delicato concetto di danno morale, quando vi sia un accusa di omicidio perché il proprio compagno (magari di una vita) sia stato ucciso dall’imputato. In realtà,a livello di teoria dello Stato e di filosofia del diritto,o se si vuole in termini più lati di scienze umanistiche, la questione sottostante finisce con coincidere col quesito sullo scopo e la ragione di esistere stessa di un ordinamento,compreso quello  della Chiesa, di una società e,in definitiva, sulla funzione principale del concetto di Stato e di famiglia. La  questione principale in gioco è se il fine precipuo della famiglia debba identificarsi nel fare figli (come conigli ha detto lo stesso Papa Bergoglio che,però si contraddice in termini di scelte politiche ultime sul matrimonio tra omosessuali: http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_19/papa-essere-cattolici-non-significa-fare-figli-come-conigli-29f7d826-a00e-11e4-84eb-449217828c75.shtml ) piuttosto che nella sostanza del rapporto umano tra i nubendi,che lo stesso diritto canonico identifica come i veri “ministri” della cerimonia e dell’atto matrimoniale. Se in pratica valga ancora il concetto dello Stato classico del numero e della procreazione come potenza in un pianeta fin troppo popolato ovvero se lo Stato stesso, come insegna Torrente-Schlesinger, nella sua concezione più moderna, non debba essere altro che uno strumento per consentire, per quanto possibile, all’individuo la miglior realizzazione della sua personalità,se cioè l’individuo e la famiglia,col suo numero, siano a servizio dello Stato e debbano sacrificare le proprie aspirazioni e financo l’identità e il modo di essere in funzione delle esigenze,vere o fraintese, dello Stato o se quest’ultimo sia chiamato a comprendere, per quanto possibile, le legittime istanze dei consociati, tanto più legittime e degne di rispetto nella misura in cui si allontanino dalla strada o dalla piazza-agorà, per approdare alla riservatezza e alla sfera esclusiva privata delle dimore e privatissima delle camere da letto, in cui,nei limiti del lecito, la presenza dello Stato o dell’istituzione,compresa quella religiosa,finisce per diventare una sorta di terzo incomodo e non può che risultare ingombrante, se non addirittura politicamente morbosa. La U.E. ha dunque il compito quantomeno di intervenire con sanzioni stavolta adeguate contro interpretazioni aberranti,da parte delle istituzioni italiane, delle leggi civili e amministrative italiane e comunque non conformi né allo spirito né alla lettera della Costituzione e del diritto U.E.,applicando,da ultimo nei confronti dell’Italia,come in tutti i casi di grave inottemperanza,una moratoria, che non sia rivolta però tanto al parlamento,in cui già aleggiano progetti di unioni civili di rango differenziato,minore e discriminante rispetto alla nozione civile pura e semplice, paritaria, di matrimonio, quanto a quei settori istituzionali,governo compreso, che ancora continuino,nonostante la sentenza U.E.,le pronunce della Consulta e della Cassazione, a praticare interpretazioni normative e condotte discriminatorie e in violazione dei diritti umani, richiedendo l’apertura di appositi procedimenti penali, anzitutto,amministrativi e disciplinari,oltre che il riconoscimento delle responsabilità civili a carico dei responsabili.