(Adnkronos) – “Sono deluso, molto deluso. La mia vita è stata distrutta per le accuse, false, di un uomo come Scarantino. Sono stato in carcere, da innocente, per quasi 18 anni. Si rende conto? Diciotto lunghi anni al 41 bis, il carcere duro. Per un reato mai commesso. E nessuno pagherà per questa ingiustizia. Sì, lo ammetto, sono deluso da questa sentenza. A me mi ‘arraggia u cori’, sì mi brucia il cuore”. Tanino Murana fa fatica a parlare. L’ex netturbino palermitano è uno dei sette innocenti accusati falsamente dal finto pentito Vincenzo Scarantino di avere avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio. E’ una delle vittime del “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”, come lo ha definito il giudice Antonio Balsamo, che ha presieduto il processo ‘Borsellino quater’. Murana, che ha seguito spesso quasi tutte le udienze del processo a carico di tre poliziotti accusati di avere indottrinato il falso pentito Scarantino, finito pochi giorni fa con un’assoluzione e la prescrizione per gli altri due imputati, non nasconde la sua amarezza. “Ho partecipato a numerose udienze ed ero convinto che l’epilogo fosse diverso. Io ho fatto ingiustamente la galera. Ho perso il lavoro, non ho visto crescere mio figlio, ho avuto un infarto. E nessuno pagherà”, dice oggi una in una intervista esclusiva all’Adnkronos.
“Sono amareggiato, non voglio commentare questa sentenza, la accetto, ma valutando la mia situazione e gli atti del processo, e il modo i cui i pm hanno valutato minuziosamente i fatti, mi aspettavo una sentenza certamente diversa. E non la prescrizione”. Ma chi è Getano Murana, detto Tanino? Tutto inizia la sera del 17 luglio del 1994. In tv c’è la finale dei Mondiali di Usa’94 Italia-Brasile, e gli occhi di milioni di persone sono incollate sul pallone. Murana sta guardando la tv con la moglie e il figlio, un bimbo di neppure un anno, sta dormendo. Tra il primo e il secondo tempo il telegiornale da la notizia del pentimento di Vincenzo Scarantino, un ‘picciotto’ della Guadagna che Murana conosce di vista, perché vivono nello stesso quartiere. Non sa che poche ore dopo la sua vita sarebbe cambiata per sempre. All’alba del 18 luglio, Tanino esce di casa per andare all’Amia, l’Azienda per la raccolta dei rifiuti di Palermo, dove fa il netturbino. Mentre sta andando al lavoro viene fermato da una macchina di poliziotti in borghese. “Mi fermarono e mi chiesero i documenti. Quello fu l’inizio di un incubo durato 18 lunghi anni con umiliazioni, torture, vessazioni di ogni genere”, dice oggi tra le lacrime. L’inzio di un incubo durato 18 anni. “Sono stato in carcere in due fasi – racconta oggi – Prima dal 1994 al 1999, poi sono uscito per la scadenza dei termini e poi dal 2001 fino al 2011”. Altri undici anni “di inferno”, come dice lui, fino a quando gli viene sospesa la pena, solo grazie al processo di revisione fortemente voluto dalla sua legale, l’avvocata Rosalba Di Gregorio, battagliera, che fin dal primo processo sulla strage Borsellino ha sempre gridato l’innocenza del suo assistito, insieme con altri sei imputati. Ci sono voluti 14 processi per sapere che Scarantino era un falso pentito.
“Tutti sapevano che era tutto falso, era lampante – racconta Murana – Ma gli unici a gridare la nostra innocenza erano il mio avvocato e quelli degli altri arrestati ingiustamente. Il mio avvocato ha portato alla luce la verità. Non senza fatica. Ci hanno nascosto persino i confronti, e ora sono usciti solo grazie ai pm che hanno portato alla luce la verità, con dei riscontri. Alcune volte mi chiedo dov’è la giustizia. Il depistaggio è stato già acclamato, ma chi lo ha fatto? Arnaldo La Barbera”, l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, “perché è morto?”. O l’ex Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, “anche lui morto nel frattempo? Lo capisce perché mi ‘arraggia’ il cuore? Perché mi brucia il cuore. Sono stato accusato con infamia di avere partecipato alla strage Borsellino”. Quali sono stati i momenti più duri per Gaetano Murana? “Tutti”, grida quasi di getto. “A partire dal carcere di Pianosa, ma anche il carcere d Caltanissetta. E tutti i vari carceri che ho girato, Ho subito soprusi, abusi, soprattutto a Pianosa. Il tutto perché? Per il loro intento di farmi collaborare? Ma cosa dovevo dire? Cosa dovevo dire?”.
Parlando delle scuse del Procuratore nazionale antimafia Gianfranco Melillo, che nel giorno del trentennale della strage di Via D’Amelio, ha detto: “Non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori”, Murana allarga le braccia. “Io non ho mai ricevuto le scuse di nessuno – dice -Tranne una sola volta, quando il Procuratore del processo di revisione mi chiese pubblicamente scusa in aula, a nome del Ministero della Giustizia, ma anche a livello personale, per noi che abbiamo vissuto la carcerazione da innocenti e mi diede anche la mano. Quando è finita l’udienza ci ha voluto vedere, e io l’ho apprezzato molto”. “Per il resto, non ho mai avuto le scuse di nessuno”, aggiunge amareggiato.
Non solo. “Nessuno si è preso la briga, da quando sono uscito dal carcere, di darmi un lavoro – rivendica – io avevo un lavoro all’Amia e nessuno me lo ha più ridato. Mi hanno rovinato la vita, oggi ho 64 anni e non è giusto vivere con la speranza di trovare la busta della spesa comprata dai miei genitori o da qualche amico fraterno che mi porta in macelleria e mi dice ‘Scegli che carne vuoi’. Non è dignitoso. Devo anche occuparmi di mia moglie che è costretta a letto per un ictus che l’ha paralizzata. E non ho l’aiuto di nessuno. Non è giusto”.
“Nessuno si è preso la briga di darmi una mano e farmi trovare un posto di lavoro. Un sussidio, niente – dice ancora Murana – Non ho preso nemmeno i soldi del risarcimento danni che ho subito. Ho fatto tutto l’iter, ma ancora niente”. E poi vuole ringraziare pubblicamente la sua legale, Rosalba Di Gregorio, che gli è sempre stata vicino. “Non solo è stata professionalmente eccellente, ma lo è stata anche da punto di vista personale e io non potrò mai dimenticare quello che ha fatto per me. La ringrazio dal profondo del cuore”.”Non credo che un avvocato si prenda la briga di pensare al suo cliente, e di fargli una telefonata anche solo per chiedergli ‘Come stai?’. Nessuno lo ha mai fatto. Farei qualunque cosa per lei”.
Il figlio di Murana non aveva neppure un anno quando l’ex netturbino fu arrestato. E negli anni in cui è stato al 41 bis lo ha visto solo tre volte l’anno e sempre dietro un vetro. “Ho recuperato il rapporto con mio figlio solo dopo anni – dice – non posso certo recuperare gli anni persi perché è cresciuto senza un padre. Mia moglie gli faceva da padre e da madre…”, dice senza nascondere la commozione.
Alla domanda sul perché Scarantino lo accusò falsamente di avere partecipato alla strage di via D’Amelio, Murana non sa rispondere. “Non lo so, io glielo chiesi, in aula, e lui mi disse: ‘Mi hanno detto di accusarti’. Eravamo entrambi della Guadagna, un quartiere periferico di Palermo, ma non eravamo amici. Io non gli davo confidenza. Vorrei sapere chi glielo ha chiesto di accusarmi. E perché proprio io. Perché lui, quando è venuto in aula e ha ritrattato tutte le accuse, mi ha detto: ‘Io no volevo accusarti’, è tutto agli atti”. Poi, si mette le mani sulla testa e la scuote ripetutamente, ribadendo: “Io non sono stato creduto, nonostante fossi innocente, e lui sì. I giudici hanno creduto a un bugiardo. E non a un incensurato come me”. E ribadisce: “Hanno vestito il ‘pupo’, lui faceva la recita. Come i bambini quando vanno a scuola. Ed è stato creduto. Per anni e anni, mentre io marcivo in galera, al carcere duro”.
E aggiunge: “Capisce perché sono così deluso da questa sentenza? Non me l’aspettavo, non è stata fatta giustizia. Dopo 30 anni la verità ancora non si conosce. Anche se qualcosa si è saputo”. E spiega che la pubblica accusa “ha portato in aula le prove”, come il pm Stefano Luciani. “Non le chiacchiere, i fatti. Ma oggi non so a chi o a cosa credere più…”.
Però una cosa vuole dirla, Tanino Murana: “Io ci credo ancora nella giustizia, anche se questa sentenza, per come si è svolto il processo, dimostra che non è stata fatta giustizia. Perché c’è un depistaggio, acclamato in sentenza, ma ad oggi non si sa da parte di chi e perché”. E conclude con un appello: “Nessuno mi ha dato una mano per farmi sopravvivere. Ho perso il lavoro a poco più di 30 anni e non l’ho mai più riavuto. Oggi sono cardiopatico, ho avuto un infarto. Ho la colonna vertebrale scassata, perché me l’hanno massacrata nel carcere di Pianosa, dove dicevano che ci trattavano bene. No, non me lo meritavo tutto questo…”. (di Elvira Terranova)