“Si discute molto del ‘silenzio’ di Draghi in queste ore. In effetti, il governo ha appena varato un provvedimento importante e severo, quello sul green pass, e il premier ha pensato bene di mandare in sala stampa un drappello di ministri a spiegare, evitando con cura di prendere la parola in prima persona. Cosa consueta per lui, e assai meno consueta per i suoi predecessori. Oltre che per i nostri costumi, s’intende.
Draghi mostra di avere una idea tutta sua di come si fa il capo del governo, e di esservi tenacemente affezionato. Non gli appartengono i proclami stentorei, né i ricami lessicali, né le narrazioni più o meno fantasiose. Per lui, devono essere i fatti a parlare, e non già le parole a spiegare i fatti. Cosa che al pubblico piace a metà, e ai media (ovviamente) non piace affatto.
Così si pone al centro della scena pubblica il controverso valore del ‘silenzio’. Inteso come una forma di apprezzabile discrezione da una parte. E di deprecabile opacità dalla parte opposta. Non si tratta di una disputa inedita, tutt’altro. La nostra storia repubblicana è affollata di reticenze che a suo tempo hanno dato scandalo. Anche quando magari servivano a tutelare alcuni segreti di Stato e ad evitare guai più gravi.
Il politico che tace ingenera infatti un sospetto legato agli arcani del potere. E dunque suscita quasi naturalmente una diffusa disapprovazione. Basta ripercorrere gli annali della prima repubblica per ricordare la quantità di volte in cui una reticenza nel discorso pubblico, un omissis nei verbali processuali, un’ombra lasciata a presidio di un interesse di Stato hanno finito per dar vita a un racconto tenebroso delle nostre vicende.
Dunque, si comprende il nostro istinto nel voler cercare di illuminare ogni frammento della scena politica. Lo si comprende, ma non è detto che lo si debba ripetere tale e quale in ogni circostanza. Infatti, il Draghi che non si espone alle domande dei giornalisti non è l’Andreotti che a proposito dei servizi segreti teorizza che ‘troppa luce abbaglia’, né il Taviani che manovra con il suo ‘operoso silenzio’ nelle trame congressuali della Dc, né il Moro che appone il segreto di Stato sui verbali del Sifar.
Ora, io non credo affatto che certi silenzi del passato fossero tutti complici, tantomeno tutti nefasti. Occorrerebbe distinguere tra un silenzio e l’altro, ovviamente. E poi considerare quello che era lo sfondo di quell’epoca, il mondo di allora, con i suoi conflitti e i suoi pericoli. Né si può dire con certezza che tutta la trasparenza, diciamo pure l’eccesso di indiscrezione, che vi hanno poi fatto seguito siano così indicativi di un’etica pubblica migliore di quella dei nostri padri.
Ma lasciamo pure il dilemma sui nostri trascorsi agli storici, e torniamo al presente. Solo per segnalare che forse anche il silenzio di Draghi è un tentativo di dire qualcosa. E cioè che nel bel mezzo di una disputa politica arroventata e fin troppo loquace il compito che il capo del governo si dà è quello di calmierare gli annunci, e di farsi giudicare semmai sulle decisioni piuttosto che sulle intenzioni, per buone che siano.
Il presidente del consiglio appare infatti quasi compiaciuto di questa sua inclinazione all’understatement. E anche certe sue assenze dal palcoscenico sembrano alludere a una vera e propria strategia di comunicazione. Discutibile, ovviamente, come tutte. Ma non priva di un suo perché. E magari anche di una sua virtù nascosta.
Il suo è un tentativo di parlare con i fatti. Tentativo che a sua volta contiene l’auspicio, o forse l’illusione, che i fatti parlino per lui. Scommetterei che in questo suo defilarsi si nasconda perfino una punta di civetteria. Che sia cioè un modo per dar vita a una leadership più densa e più fitta di quelle che abbiamo visto all’opera e che hanno finito con l’essere sotterrate dalla quantità di parole che avevano quasi inutilmente accumulato giorno per giorno, ora dopo ora.
In una parola, il silenzio di Draghi è criptico. Ma forse anche più loquace che non opaco”. (di Marco Follini)