Il Nyt accusa la moda italiana: “Sarte pagate a 1 euro l’ora”

La moda made in Italy, simbolo di eleganza e raffinatezza in tutto il mondo, finisce sotto attacco proprio mentre Milano fa da teatro alla seconda giornata della Fashion Week. Secondo un articolo del New York Times, infatti, alcune dei maggior brand di moda italiana sarebbero responsabili di “lavoro nero in Puglia”, dove le sarte sono pagate  “1 euro l’ora” per confezionare cappotti e abiti che poi finiranno nei negozi “a 2.000 euro”. L’inchiesta, intitolata ’Inside Italy’s Shadow Economy’, porta la firma di Elizabeth Paton e Milena Lazazzera, che paragonano così la Puglia al Bangladesh o alla Cina.
Dal capoluogo lombardo, il presidente della Camera della moda, Carlo Capasa, ha annunciato di voler ricorrere alle vie legali nei confronti  il quotidiano statunitense, che nel mettere sotto accusa la moda italiana, non usa giri di parole e racconta di un mondo fatto di lavoratrici in nero, prive di garanzie o assicurazioni e che percepiscono retribuzioni da fame.
La testimonianza dell’inchiesta arriva dalle parole di una sarta di Santeramo in Colle, un paesino in provincia di Bari, con cui si apre l’articolo. La donna (che ha chiesto l’anonimato) parla della sua situazione lavorativa seduta nella sua cucina, dove “sta cucendo con cura un sofisticato cappotto di lana, il genere di capo che si venderà dagli 800 ai 2.000 euro quando arriverà nei negozi” riporta il Nyt. Fa parte della collezione autunno-inverno di uno dei principali brand italiani. La sarta, prosegue il giornale, “riceve solo 1 euro dalla fabbrica che la impiega per ogni metro di tessuto che completa”.
“Mi ci vuole circa un’ora per cucire un metro – dice la donna – quindi circa quattro o cinque ore per completare un cappotto intero”. Stando a quanto riferito al Nyt, la sarta “lavora senza contratto o assicurazione, e viene pagata in contanti su base mensile”. Il lavoro le viene affidato da una fabbrica locale che produce capispalla per alcuni dei nomi più blasonati nel settore del lusso. Colossi del sistema moda. Il massimo che abbia mai guadagnato, spiega, è stato 24 euro realizzare un cappotto intero.
“Il lavoro a domicilio, che consiste nel lavorare da casa o in un piccolo laboratorio anziché in fabbrica, – spiega il quotidiano americano – è una pietra miliare della catena di distribuzione del fast-fashion. È particolarmente diffuso in Paesi come l’India, il Bangladesh, il Vietnam e la Cina, dove milioni di persone, prevalentemente donne, sono tra i lavoratori meno tutelati del settore”. Le giornaliste spiegano che in Italia le lavoratrici non possono essere paragonate alla manodopera sfruttata in questi Paesi ma che i loro salari ci si avvicinano. “L’Italia non ha un salario minimo nazionale – scrive il quotidiano – ma circa 5-7 euro all’ora è considerato uno standard appropriato da molti sindacati e società di consulenza. In casi estremamente rari, un lavoratore altamente qualificato può guadagnare fino a 8-10 euro l’ora”.
Non ci sono dati ufficiali sui contratti irregolari ma il New York Times dice di aver raccolto le prove di circa 60 donne nella sola Puglia che lavorano da casa senza un regolare contratto nel settore dell’abbigliamento. Poi cita Tania Toffanin, autrice del volume ’Fabbriche Invisibili’. La sua stima è che attualmente, nella produzione di capi d’abbigliamento, vengono impiegati dai 2.000 ai 4.000 lavoratori irregolari.