(dall’inviata Elvira Terranova) – Pochi giorni prima di essere ucciso nella strage di Via D’Amelio il giudice Paolo Borsellino era diventato guardingo, “non si fidava di molti pm della Procura” e “teneva la porta sempre chiusa”, a differenza dei mesi antecedenti quando “sorrideva e nella sua stanza c’era un gran via via di colleghi”. A raccontare gli ultimi giorni di vita del giudice antimafia è il suo ex pupillo, Antonio Ingroia. Sentito come teste dell’accusa nel processo sul depistaggio sulle indagini della strage di Via D’Amelio, l’ex Procuratore aggiunto di Palermo e oggi avvocato, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, racconta il periodo antecedente e immediatamente successivo alla strage. Alla sbarra ci sono tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di avere indotto l’ex pentito Vincenzo Scarantino a mentire accusando persone innocenti.
Rispondendo nel corso del controesame alle domande dell’avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, che è anche il genero del giudice ucciso nella strage, ha spiegato che il giudice si fidava di lui e “di pochi altri”. “Pensava che l’80 per cento della procura fosse controllata dal Procuratore di allora Giammanco…”, spiega Ingroia. Racconta anche che nei mesi successivi alla strage di Capaci gli disse “che era sua intenzione affiancare me a lui durante l’estate per la collaborazione di alcuni collaboratori, in particolare Leonardo Messina. Perché si fidava di me, e perché c’erano molti magistrati di cui non si fidava. Io quel giorno, il 15 luglio del 1992, l’ultima volta che lo vidi, gli dissi che stavo per prendermi qualche giorno di ferie ma lui non la prese bene. Io lo andai a salutare ma lui rimase con la testa china, mi salutò freddamente”. Borsellino aveva chiesto a Ingroia di affiancarlo, in particolare, nella gestione di due collaboratori, Gaspare Mutolo e Leonardo Messina. “Mi disse ‘Fai andare tutti questi in ferie e ci lavoriamo noi’. Perché stava andando in una procura che considerava per l’80 per cento controllata dal procuratore Giammanco. Poi c’era un gruppo sparuto chiamato in modo sprezzante i ‘Falconiani’ che per lui era un punto di riferimento”. E spiega ancora che prima della strage di via D’Amelio il giudice Paolo Borsellino aveva cambiato atteggiamento.
“Prima era sempre allegro ed estroverso, a differenza di Giovanni Falcone che era invece più riservato”, dice ancora Ingroia. “Ricordo un giorno mi disse nella sua stanza di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare – racconta – La prima volta non mi disse neanche il nome, ma che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti. Mi chiese di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo”. Il riferimento è a Gaspare Mutolo. Un altro capitolo affrontato da Ingroia è quello sull’ex dirigente dei Servizi segreti, Bruno Contrada. Arrestato alla vigilia di Natale del 1992 per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo le dichiarazioni del pentito Mutolo. “L’1 luglio del 1992 Bruno Contrada, allora ai Servizi segreti, sapeva della collaborazione di Gaspare Mutolo”, “che era ancora top secret”, dice Ingroia. E racconta di averlo saputo poche ore dopo la strage. “Paolo Borsellino l’1 luglio si recò quel giorno al Viminale dove incontrò Contrada che gli fece capire di sapere della collaborazione di Mutolo. Per Paolo era un segnale preoccupante. Perché all’interno del Viminale qualcuno gli mandò a dire che Contrada non era solo”. “Paolo lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui. Questo lo appresi da Carmelo Canale e poi da Agnese Borsellino”.
Poi, racconta di episodi “anche sconcertanti” che hanno riguardato l’ex Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, “anche nei miei confronti”. “Ebbe anche un atteggiamento intimidatorio con me in una occasione”. dice. “Con il passare degli anni mi sono convinto che da parte di Tinebra vi fosse da una parte una posizione di conflittualità e di contrarietà rispetto alle iniziative che assumeva la Procura di Palermo – racconta Ingroia – e questo mi indusse fare delle pubbliche dichiarazioni in cui criticai la Procura perché non indagava sui cosiddetti mandanti esterni della strage. Questa dichiarazione che venne pubblicata da vari organi di stampa a ridosso dell’anniversario dell’attentato, provocò una reazione di Tinebra che in una riunione alla Dna mi avvicinò e mi disse con atteggiamento intimidatorio: ‘Questa te la faccio passare, ma non ti permettere più di criticare quello che sto facendo'”.
Nei giorni successivi alla strage di via D’Amelio l’allora Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra chiese proprio all’allora giovane pm Antonio Ingroia di incontrarlo, data la sua vicinanza al giudice Paolo Borsellino. E in quella circostanza Ingroia gli raccontò quanto appreso il giorno dell’attentato da due colleghi, Teresa Principato a Ignazio De Francisci. “Dopo la strage di via D’Amelio, la domenica stessa, molti di noi pm più vicini a Paolo ci spostammo negli uffici di Procura. Eravamo seduti sulla panca dei corridoi, io con i colleghi Teresa Principato e Ignazio de Francisci. e loro mi raccontarono un particolare che avevano appreso da Borsellino il giorno prima”. “Quel giorno Paolo fece un singolare passaggio per le stanze di alcuni pm come se si stesse accomiatando da ognuno e in quella occasione gli aveva riferito che aveva appreso”. In quel frangente i colleghi gli raccontarono di avere appreso da Borsellino che il collaboratore Gaspare Mutolo gli aveva detto, fuori verbale, di alcune rivelazioni che avrebbe fatto su uomini dello Stato, in particolare su un magistrato, Domenico Signorino (poi morto suicida ndr) e un appartenente ai Servizi segreti, Bruno Contrada. “Questo è quanto io riferii al dottor Tinebra. Non ricordo se nello stesso frangente i colleghi mi raccontarono anche l’episodio dell’incontro tra Borsellino e Contrada. Mutolo gli disse: ‘Dottore si guardi le spalle perché dentro lo Stato ci sono delle complicità con Cosa nostra’ e gli fece i nomi di Signorino e Contrada”.
E poi ricorda che quel giorno in cui incontrò Tinebra gli disse che la Procura stava indagando proprio su Contrada. Quello stesso giorno Tinebra chiamò Contrada per chiedergli di aiutarlo nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio, come raccontato dallo stesso Contrada anche di recente, sentito dalla Commissione regionale antimafia all’Ars.
Ingroia ha parlato poi di Vincenzo Scarantino, l’ex falso pentito, che accusò anche l’ex premier Silvio Berlusconi.”Interrogai Vincenzo Scarantino in veste di sostituto. Ci venne segnalato che aveva presunte rivelazioni da rendere a carico di Bruno Contrada, relativamente a presunte soffiate di quest’ultimo che avrebbero fatto sfumare operazioni di polizia, e rivelazioni sul coinvolgimento di Silvio Berlusconi su traffico di droga”, dice.. Quelle su Berlusconi a naso mi parvero subito inattendibili e infatti non c’erano riscontri. In riferimento a quelle su Contrada c’erano dei riscontri generici ma non c’era nessun elemento sul fatto che Contrada pote”.
Sempre oggi è stato sentito l’ex difensore del falso pentito Vincenzo Scarantino. Santino Foresta. Ricorda, in particolare, di quando il 2 settembre del 1998, mentre era in corso l’interrogatorio dell’allora collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, “a un certo punto il pentito ritrattò tutte le dichiarazioni fatte precedentemente” sulla strage di via D’Amelio, “dicendo di essere stato costretto a fare quelle dichiarazioni”. “Le sue parole sconcertarono un po’ tutti. Soprattutto i magistrati – racconta – Ricordo che il pm Giordano si mise le mani nei capelli”. Ma dopo un “po’, nel corso dello stesso interrogatorio ritrattò la sua stessa ritrattazione e confermò quanto detto in precedenza ai magistrati”. Dopo essere stato recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa, Scarantino decise di collaborare con gli inquirenti spiegando come venne organizzata la strage in cui morì il giudice Borsellino per cui venne condannato a 18 anni per poi accusare i poliziotti e magistrati, che lo avrebbero spinto a fare quelle accuse. Nel 1998 Scarantino ha ammesso di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio e di essere stato costretto dall’allora capo della squadra mobile di Palermo a confessare il falso e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. Nel 2007 fu il pentito Gaspare Spatuzza a raccontare di essere stato l’autore del furto dell’auto Fiat 126 usata per l’attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino.
L’avvocato Foresta, che in passato ha assistito anche altri collaboratori come Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, racconta in aula che quel giorno, nel 1998, all’interrogatorio, c’erano i pm Francesco Paolo Giordano, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. ”’Cosa successe nell’interrogatorio?”, chiede l’avvocato Giuseppe Scozzola, che rappresenta la parte civile nel processo. ”Scarantino partì un po’ a ruota libera e cominciò all’improvviso a ritrattare tutte le dichiarazioni fatte precedentemente – dice Foresta – queste sue parole sconcertarono un po’ tutti, ma soprattutto i magistrati che conoscevano gli atti di indagine. Diceva di avere avuto delle pressioni ma non disse da chi”. Da parte dei pm? Chiede l’avvocato Scozzola. ”Non penso proprio, i pm erano sconcertati”. Da parte della Polizia? gli chiede l’avvocato. ”Non lo so ma certo non dai magistrati”. ”Dopo un po’ nel corso dello stesso interrogatorio ritrattò la ritrattazione. – dice ancora l’avvocato Foresta -Quindi l’interrogatorio fini’ con la conferma del primo interrogatorio”.
Alla domanda dell’avvocato Giuseppe Seminara se dopo la ritrattazione di Scarantino “c’è una sua interlocuzione o un confronto con i magistrati”, replica: “Ci fu una pausa in cui si verbalizzò ciò che aveva detto, poi ritrattò la ritrattazione dando una spiegazione. Ma non ci fu una interlocuzione tra Scarantino e pm. Io rimasi con i magistrati e Scarantino era a quattro mesi di distanza. Non mi pare che qualcuno si sia avvicinato, lo avrei visto. Il contesto era particolare”.
Nel corso dell’udienza è stata ascoltata anche una ex legale del falso pentito Francesco Andriotta. Che esclude “di avere mai consegnato dei documenti, degli appunti o degli atti della dottoressa Annamaria Palma a Francesco Andriotta”. A parlare è l’avvocata Floriana Maris. Il processo è stato rinviato al prossimo 22 dicembre.