Come lo ha perfettamente ‘inquadrato’ Gian Marco Chiocci, direttore dell’agenzia di stampa Adnkronos, qui si racconta di ‘eroi invisibili’, “il libro di Arrigo – spiega il giornalista – colma una lacuna perché dà voce e spazio a chi si è ‘sporcato le mani’ con una vita di sacrifici e fatica, vivendo ‘in clandestinità’ proprio come i brigatisti. L’autore racconta di eroi silenziosi di cui non si parla mai, se non quando uno di loro muore in servizio. Questo libro in qualche modo rende loro giustizia“.
Ed eccolo questo interessantissimo ‘Il coraggio tra le mani. Storia degli invisibili che hanno sconfitto le Brigate Rosse’, scritto da Emiliano Arrigo per ‘Historica’.
“Questo libro – ha commentato l’autore nel corso della presentazione avvenuta nella sala Nassiriya di Palazzo Madama – è stato scritto per raccontare la storia delle Br vista dagli ‘invisibili’, gli uomini della sezione speciale anticrimine dell’Arma dei Carabinieri che si sono battuti in prima linea contro il terrorismo brigatista e le cui vicende non sono mai state narrate. Uomini che hanno pagato un alto tributo, se si pensa che fra le loro fila si contano negli anni di piombo 600 morti e 3mila feriti e i cui nomi sono sempre rimasti sconosciuti. Dei tanti libri scritti sul fenomeno delle Brigate Rosse questo è il primo che racconta la loro storia”.
Presenti anche il coautore (ex Sezione Speciale Anticrimine) Enzo Magrì, l’ex generale dell’Arma dei carabinieri Mario Mori, la senatrice Roberta Pinotti, ed il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa.
Premettendo che, a suo giudizio, per quel che riguarda i pentiti (specie alla luce della trattativa Stato-mafia), “ben venga il loro apporto ma ogni cosa che riferiscono ha valore solo se ha un riscontro preciso e concreto“, l’ex Gen. Mori ha ricordato che, allora, “La politica diffidava degli ‘specialisti’ e anche all’interno dell’Arma non eravamo amatissimi”. Quindi, nei lunghissimi anni spesi ad inseguire i terroristi (ma vale anche per la mafia, visto il gran lavoro svolto per acciuffare Totò Riina nel suo covo), all’interno della speciale squadra fondata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Mori tiene a ricordare che “era un grande manager della sicurezza. Non prendevamo assegnazioni dal Comando generale, sceglievamo personalmente gli uomini che avrebbero fatto parte della squadra. Con alcuni di loro il legame è rimasto anche oggi e tra noi ci si chiama come allora, solo con il soprannome. Infiltrati? Solo uno, era un ragazzo che ci consegnò Pecchioli, che noi arrestammo insieme agli altri – rivela l’ex alto ufficiale dell’Arma – Per individuare il numero maggiore possibile di componenti di un gruppo si sceglieva di non arrestarli tutti, ma di lasciarne fuori qualcuno e di controllarlo per arrivare ai capi e a tutti membri dell’organizzazione. Una volta individuammo 39 brigatisti e ne prendemmo 35. Il magistrato mi disse: ‘Va bene, questi domani potrebbero sparare a me o a lei ma facciamo come dice’. Un metodo che vale sempre”.
Dal canto suo il coautore Enzo Magrì, ha raccontato un fatto inedito: quando, indagando individui sospettati di avere rapporti con i brigatisti “ne pedinavamo uno che adesso è diventato molto famoso ma che a quei tempi frequentava persone davvero poco raccomandabili”. Ovviamente all’interno del libro l’identità non è svelata.
Insomma si racconta di uno dei periodi più bui della nostra storia, in qualche modo vissuti – seppure indirettamente – anche da quanti presenti alla presentazione del libro. Come il vicepresidente del Senato, La Russa il quale, commentando il tempo perso a discapito della caccia ai terroristi, punta il dito contro “una certa sottocultura di sinistra che – spiega alludendo ai dibattiti interni alla sinistra in quegli anni – se avesse smesso un po’ prima di parlare di ‘compagni che sbagliano’ e se l’estabishment italiano e internazionale non avesse dato la propria copertura al fenomeno. Sarebbe stato più facile combattere le Brigate Rosse se fin dall’inizio fossero stati messi in campo i mezzi adeguati e le strutture necessarie”. E’ anche vero, precisa il vicepresidente del senato, che “da parte del Pci vi fu sicuramente una presa di distanza e la condanna del fenomeno brigatista, ma tale deferenza non vi fu però allo stesso modo da parte di tutto il mondo della cultura della sinistra che per molto tempo considerò quello delle Br come l’ambiente dei ‘compagni che sbagliano’, senza che vi fosse una presa di posizione definitiva nei loro confronti“.
Una tesi in parte condivisa dalla Pinotti, che ha però tenuto a sottolineare che non bisogna “fare confusione tra la storia del Pci e quella dei gruppi di sinistra che si ispiravano al comunismo, che capirono il loro errore con ritardo. Il Pci ebbe una posizione ben chiara, al punto che, ancora prima di Guido Rossa, le sezioni del partito venivano presidiate per paura di attacchi da parte delle Br“.
Max