NellItalia del 2018 “la ripartenza non cè stata” ma ciò nonostante la nostra società “in realtà, per quanto frammentata, poco incline a spingere in avanti il Paese nella sua interezza, ha trovato in sé lenergia sufficiente per adattarsi ai tempi e alle regole del progresso economico, ha creduto anche allultimo residuo di quella cultura progettuale e riformista che pure tanti danni ha fatto nella storia del nostro Paese ma che garantisce almeno linee dintersezione attorno alle quali aggregare energie positive, sia economiche che sociali”. E un messaggio in chiaroscuro quello che emerge dal 52esimo Rapporto Censis, che segnala come “nel sottofondo delle dinamiche collettive” si vede una “efficacia dei processi in atto” che “conferma lantica verità che solo le risoluzioni delle crisi inducono uno sviluppo”.
Quella descritta nel Rapporto 2018 sulla situazione sociale del Paese è una Italia – spiega il Censis – alle prese con “un rabbuiarsi dellorizzonte di ottimismo” e nella quale si accentuano “lo squilibrio dei processi dinclusione dovuto alla contraddittoria gestione dei flussi dimmigrazione”. Linsicurezza sembrerebbe la parola chiave per descrive la nostra società, dove lassistenza viene “interamente scaricata sulle famiglie e sul volontariato”, dove le istituzioni formative sono alle prese con “un vistoso calo di reputazione”, dove si accentua “il cedimento rovinoso della macchina burocratica pubblica e della digitalizzazione dellazione amministrativa”. In questo scenario, insomma, secondo il Censis “verrebbe da pensare che tutto arretra” con gli italiani “incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro”. E invece, spiega listituto, magari lontane dalle luci della ribalta ci sono “lente e silenziose trasformazioni, movimenti obliqui” che “preparano il terreno di un nuovo modello di perseguimento del benessere e della qualità della vita”.
LItalia registra, ad esempio, “il consolidarsi di una positiva bilancia commerciale della tecnologia, il primato nelleconomia circolare, laffermarsi dei tanti soggetti delleconomia esplorativa, il prepotente e drammatico ritorno di attenzione sulleconomia della manutenzione”. E a livello intermedio – aggiunge – “si rinnova anche il ruolo della rappresentanza” anche se, in questo ecosistema, “ciascuno afferma un proprio paniere di diritti e perde senso qualsiasi mobilitazione sociale”. Il vero nodo – sembra essere lindicazione che emerge dal rapporto – è che in questo sistema sociale, “attraversato da tensione, paura, rancore” si “guarda al sovrano autoritario” mentre “il popolo si ricostituisce nellidea di una nazione sovrana supponendo, con uninterpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dellingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale”.
Il Censis punta il dito contro la “politica dellannuncio” quando a questultimo manca “la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al proprio progetto”. Ma se “ignorare il cambiamento sociale è stato lerrore più grave della nostra classe dirigente del trascorso decennio, lerrore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso, diseguale”.
Di qui, linvito a “un dibattito serio sullorientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi”. Perché allItalia di oggi, dice il Censis, “basterebbe una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi”.
Inoltre, soltanto un italiano su cinque ha un atteggiamento positivo sul momento che vive; per il resto, prevalgono rabbia, disorientamento, pessimismo. Su 100 italiani, riferisce lindagine del Censis, 30 si dicono “arrabbiati perché troppe cose non vanno bene e nessuno fa niente per cambiarle”; 28 “disorientati” in quanto ammettono di “non capire cosa stia accadendo”; 21 vedono “negativo: le cose andranno sempre peggio”; e soltanto altri 21 guardano invece alla realtà con uno stato danimo “positivo” in quanto “viviamo unepoca di grandi cambiamenti” e riferiscono di “avere fiducia nel futuro”.
Indiretta conferma arriva da un altro dato presente nel Rapporto Censis: due italiani su tre sono convinti che “non ci sia nessuno a difendere interessi e identità” e dunque sono costretti a farlo “da soli”. Se il 64% la pensa così, la percentuale si impenna a quota 72 fra coloro che hanno un basso titolo di studio, a 71 per chi ha redditi bassi, a 67 fra i residenti al Sud e nelle due Isole, a 65 fra le donne.
Per metà degli italiani i politici sono tutti uguali e per oltre la metà, in Italia niente cambia: è il sentimento politico rilevato dal Censis. A esprimere quella che un tempo si sarebbe definita come una considerazione qualunquista – ovvero che “i politici sono tutti uguali” – è il 49,5% degli italiani e la percentuale supera la metà di loro nel caso di persone con reddito basso (54,8%), donne (52,9%), giovani tra i 18 e i 34 anni (52,5%), chi ha un basso titolo di studio (52,2%) e i meridionali (50,6%).
Quanto ai pessimisti per i quali “le cose in Italia non stanno cambiando”, in media il 56,3% degli italiani, in testa risultano essere di gran lunga gli studenti (73,1%) seguiti a distanza dagli anziani ultra 65enni (62,2%), dai residenti nel Nord-Ovest (60,7%), dalle donne (60,2%), dai laureati (60,2%) e da coloro che percepiscono redditi medio-bassi (58,1%).
“Dopo il rancore, la cattiveria” titola il Censis il capitolo del suo Rapporto annuale dedicato alle radice del sovranismo psichico, sottolineando che “gli italiani sono diventati nel quotidiano intolleranti fino alla cattiveria” e quindi “la politica e le sue retoriche rincorrono, riflettono o semplicemente provano a compiacere un sovranismo che si è installato nella testa e nei comportamenti degli italiani”, che dimostrano una “consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno e più ancora che non cambieranno”.
Per uscire da questa situazione, “gli italiani sono ormai pronti a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima dora si era visto” e allora mostrano una “disponibilità pressoché incondizionata: non importa se il salto è molto rischioso e dallesito incerto, non importa se laltrove è un territorio indefinito e inesplorato, non importa se per arrivarci si rende necessario forzare, fino a romperli, gli schemi canonici politico-istituzionali e di gestione delle finanze pubbliche”. Dei 28 Paesi dellUnione europea, lItalia è quello meno convinto che lappartenenza allUe abbia portato benefici. Un dato inferiore anche a quello della Gran Bretagna prossimo alla Brexit. Soltanto il 42% degli italiani ritiene che far parte dellUnione europea sia “una buona cosa”, rispetto alla media del 62% degli altri membri, si riporta nel rapporto, che ha elaborato dati dellEurobarometro.
Per unimportante fetta di italiani – il 37% – far parte dellUnione europea “è una cosa né buona né cattiva” (25% media Ue) mentre per il 18% “non è una buona cosa” (11% media Ue). Il 3% non sa (2% media europea).