(Adnkronos) – “Vladimir Putin è oggi più solo, ma la Cina non è più vicina agli Stati Uniti” e per Pechino, che “prende delle distanze” dal presidente russo, la guerra in Ucraina è “anche una questione di realpolitik”. Francesco Sisci, sinologo, sintetizza così con l’Adnkronos all’indomani dei colloqui a Roma tra il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, e Yang Jiechi, numero uno della politica estera del Partito comunista cinese. Già di per sé l’arrivo di Yang a Roma è “un chiaro segnale della Cina” al presidente russo, che con il leader cinese Xi Jinping, solo a inizio febbraio, in occasione della visita a Pechino per l’inaugurazione dei Giochi olimpici invernali, aveva firmato un documento di amicizia “senza limiti”. Il 24 febbraio, poi, l’annuncio di Putin sull’ “operazione militare speciale” in Ucraina. Oggi è il ventesimo giorno di guerra.
E passati 20 giorni un “segnale chiaro”, secondo Sisci, è arrivato da Pechino a Mosca: i cinesi sono “pronti a prendere delle distanze”, dopo aver commesso un “errore di valutazione molto grave”, che ha messo a nudo “la debolezza cinese” rispetto a cosa stava realmente accadendo, rispetto alla gravità della situazione. “Avrebbero dovuto opporsi mani e piedi all’avventura militare di Putin – osserva – avrebbero dovuto prendere le distanze da Putin ai tempi delle Olimpiadi”.
E nel comunicato cinese successivo ai colloqui romani “non si cita la Russia”, rileva il sinologo, che evidenzia un “altro segno importante” nella misura in cui “oggi Putin è oggettivamente più solo” e “la conduzione della guerra è più difficile”. Anche perché i cinesi “in qualche modo dicono che non daranno aiuti militari alla Russia”: è in questo senso, secondo Sisci, che vanno lette le dichiarazioni cinesi in risposta ai rapporti di stampa secondo cui la Russia avrebbe chiesto aiuto militare e assistenza economica al gigante asiatico.
E’, rimarca il sinologo, “un segnale positivo” nella prospettiva dei sempre difficili rapporti tra Pechino e Washington, ma “restano nodi irrisolti di sostanza”, che sono “anzi più complicati”, che vanno al di là della questione ucraina e che “sono al cuore” del rapporto tra le due potenze. Dopo l’incontro a Roma tra il ‘falco’ Sullivan e la ‘tigre’ Yang, la Cina “ha pubblicato due comunicati in parallelo, uno su Taiwan e uno sull’Ucraina”, osserva Sisci, insistendo sul fatto che in sostanza Pechino “vuole un impegno forte americano su Taiwan”, l’isola che la Repubblica popolare considera una “provincia ribelle” da “riunificare” e che proprio ieri ha denunciato l’incursione di 13 jet cinesi. Pechino, prosegue, “vuole un impegno americano a non interferire su Xinjiang, Tibet e Hong Kong”. Tutti “affari interni” per il gigante asiatico che non vuole critiche su diritti umani e democrazia e contesta la strategia Usa per l’Indo-Pacifico.
Ed è tutta qui la “è differenza profonda con gli Usa”. Perché per la Cina la guerra in Ucraina è “anche una questione di realpolitik, quindi di scambi politici”, mentre per gli Usa “la questione è puramente di principio e la Cina deve fare la cosa giusta senza chiedere nulla in contraccambio”.
E Putin è “più solo” perché “se la Cina è disposta a parlare” significa che “è disposta ad abbandonare Putin al suo destino”. Così potrebbe esserci nel gigante asiatico – a pochi mesi dall’atteso Congresso mentre Xi aspira a un inedito terzo mandato da leader – “l’inizio di un cambio di paradigma di pensiero”.
Un cambiamento indotto anche da una realtà: la guerra in Ucraina non ha solo messo in discussione, ma “sta distruggendo” le convinzioni cinesi – maturate nel corso di anni e da cui prendevano le mosse molti calcoli politici – che “l’America fosse in declino” e che “l’Europa fosse disposta ad abbandonarla”. Di fatto, dice Sisci, la Cina si ritrova con “un’America che è molto forte, con un’Europa che segue l’America, con una Russia oggettivamente molto debole, se non addirittura un peso morto”. E i cinesi si erano “alleati con la Russia”, che invece di essere “un aiuto” si rivela un “ostacolo, complicando tutti i calcoli politici”.
Sarà anche questo, osserva Sisci, uno dei temi del Congresso che si terrà nella seconda metà dell’anno, mentre oggi “tutte le fragilità della Cina appaiono molto più evidenti”. E dalla missione di Yang, sottolinea, inizierà probabilmente in Cina un processo di “osservazione”, di solito “molto lungo”, con un attento dibattito interno a partire dal Politburo ristretto perché anche i cinesi “non vogliono instabilità in Russia”, a loro confine settentrionale. E perché gli spettri sono due: “la possibilità che Putin venga deposto e arrivi un governo filo-americano a Mosca” o, “peggio, che la Russia si frantumi come si è frantumata l’Urss”. E tutto sembra portare – con il tempo – verso un “cambio di prospettiva in Cina”, verso l’ “inizio di un cambio di paradigma di pensiero”, tenendo conto del fatto che adesso la Russia di Putin è un “fardello impossibile da scaricare” ma al contempo “impossibile da tenere”.