La verità richiede tempo, ma gli strumenti tecnologici sono in grado di fornire, con una probabilità piuttosto alta, una risposta sulle cause della tragedia della funivia del Mottarone. Ne è convinto Gianpaolo Rosati, docente di Tecnica delle costruzioni al Politecnico di Milano e consulente nella vicenda del crollo del Ponte Morandi a Genova. La scena sulla montagna che guarda il Lago Maggiore restituisce una cabina distrutta – in cui hanno perso la vita 14 persone – ma nell’impatto prima sul terreno battuto poi contro il tronco di un albero, il carrello e la trave di aggancio hanno resistito perché “di acciaio resistente e quindi con i mezzi di diagnostica, ma anche a vista, si possono avere molte risposte”.
In particolare, spiega all’Adnkronos, “sulle estremità della fune si può fare una ‘tac industriale’, cioè una tomografia in cui con raggi X di alta intensità – con un potere risolutivo anche del millesimo di millimetro – si può distinguere se il metallo è o non è ossidato e se la rottura è avvenuta per fatica nel materiale”. Una delle ipotesi più quotate tra gli esperti è che il sistema frenante di emergenza bloccato sia intervenuto più volte in modo anomalo sovraccaricando la fune che si è indebolita fino a spezzarsi nel punto più delicato, la ‘testa fusa’, dove il cavo aggancia il carrello e dove “può essere più difficile capire cosa sta accadendo, perché il piombo scherma il sistema di controllo magnetometrico”.
Se il fulmine è un’ipotesi scartata, “non si può escludere, invece, che ci sia stato un accavallamento delle corde: è possibile in un tratto di contropendenza che le ruote del carrello trancino la fune accavallata. E già successo”, spiega l’ingegnere. E dallo stato della corda nel punto di rottura, se tranciata di netto o sfilacciata, che si potranno iniziare a escludere dunque alcune ipotesi.
La negligenza ha spesso accompagnato gli ultimi disastri in Italia, “la manutenzione risponde a regole precise: nei manuali – sottolinea l’ingegner Rosati – è stabilito dopo quante ore di lavoro dell’impianto si deve intervenire, ad esempio nell’ascensore a fune quando la corda ha superato un certo numero di cicli deve essere sostituita, indipendentemente dal suo aspetto. Altrimenti ne va della sicurezza”. Quello che si dimentica è che “le funi, le macchine, i ponti hanno una vita a termine, un altro aspetto ignorato è che per quanto si lavori per ridurre a zero la probabilità di collasso di un elemento, una probabilità che la fune si rompa esiste sempre e un ingegnere non può dire il contrario”.
Ora non resta che dare il giusto tempo ai consulenti di studiare. “L’errore che si può fare è puntare l’attenzione solo su una causa perché fa più effetto. E probabile che si arrivi a un elenco di cause e concause più probabili, ma ci vuole un tempo adeguato che per il Ponte Morandi è stato due anni e mezzo vista la mole di documenti da esaminare e prove da eseguire. Non si deve esaminare solo il momento finale del collasso, ma andare indietro lungo la storia della funivia perché li potrebbero esserci nascoste delle evenienze, dei malfunzionamenti o delle cattive progettazioni iniziali che comunque anche se alla lontana potrebbero avere riflessi sulla tragedia”.
Gli elementi da guardare non sono solo la fune che si è rotta o il sistema frenante, ma ad esempio anche “l’argano traente e i sistemi meccanici che per malfunzionamento, possono aver danneggiato la fune. E la valutazione di tutti questi aspetti che permette di arrivare a conclusioni plausibili. E una situazione delicatissima, è giusto fare tutte le ipotesi possibili per giungere, con l’aiuto della diagnostica ad individuare le cause più probabili”, conclude l’ingegnere Rosati.