(Adnkronos) – “Premessa numero uno. Non conosco Fabio Rampelli se non per le poche cose che ho letto di lui sui giornali. Premessa numero due. Non conosco le dinamiche interne a Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa. Premessa numero tre. Non votando per quel partito ne seguo le vicissitudini con il rispetto che è dovuto a chi la pensa diversamente, assai diversamente, dal sottoscritto.
E tuttavia c’è un punto che non riguarda solo quel partito e quelle dinamiche. Attiene piuttosto al modo di governare, e al rapporto che prende forma, volta per volta, tra chi governa e chi dissente. Questione non nuova e non semplice, si dirà. E tuttavia non irrilevante al fine di esprimere un giudizio sul nuovo corso che la politica ha intrapreso in questo primo scorcio di legislatura.
Io confesso di avere una certa dose di simpatia per i luoghi politici nei quali si discute e magari si litiga. Luoghi nei quali il dissenso può dar fastidio, alle volte. Dove è sempre in agguato la tentazione di richiamare all’ordine le voci critiche. E dove però c’è anche la consapevolezza che la pluralità delle opinioni, anche quelle più dissonanti, aiutano chi guida ad aggiustare la rotta. O almeno, a tener conto anche di chi suggerisce una rotta leggermente diversa.
La storia dei partiti italiani si nutre da sempre di quella dialettica. Talvolta la esaspera, è vero. Ma alla fine sa trarre giovamento anche da chi canta fuori dal coro. Ora, io non so se e quanto all’interno del partito attualmente più forte si levino oggi voci diverse da quelle più canoniche e ortodosse. Ma se così fosse lo considererei un di più e non un di meno. Un modo per riflettere e non solo un modo per disubbidire, complicare, magari ostracizzare.
Nella Dc del tempo che fu c’era un gran pullulare di correnti e dissensi di ogni tipo. Uno spiegamento di differenze che non attentava all’unità di quel partito (almeno fin verso i suoi ultimi giorni) ma semmai ne irrobustiva l’insediamento in uno spettro politico ed elettorale assai più ampio di quello che accompagnava di volta in volta questo o quel leader. Altri tempi, si dirà. Ma a giudicare da quel che s’è visto dopo, furono tempi che oggi si meritano il rispetto se non addirittura un briciolo di rimpianto da parte di chi è venuto dopo.
Nel Pd di ieri e di oggi si è andati oltre, molto oltre. Fin troppo, si dirà. E si comprende che quel continuo vai e vieni di segretari, di carte d’identità, di scissioni e ricomposizioni deve aver provocato un certo mal di testa a iscritti ed elettori. Resta il fatto però che anche quel continuo interrogarsi su se stessi, discutere, litigare non è stato del tutto vano. In un partito degno del nome ci deve essere sempre un continuo ragionare sul modo migliore di essere se stessi. Cosa che non risparmia la confusione ma almeno limita il conformismo.
Ora, può suonare quasi provocatorio offrire questi esempi al(la) presidente Meloni, tutti assai lontani dalla sua sensibilità politica. E tuttavia anche quegli esempi, e perfino quegli errori, qualcosa insegnano. Il fatto è che in democrazia per ogni governo, ogni coalizione, ogni partito, il dissenso non è mai, quasi mai, un fastidio. E’ piuttosto un’arma in più. Ne acuisce la sensibilità. Ne può ampliare la sfera di consenso. E soprattutto è sempre un segnale che avvisa di difficoltà e problemi che troppe volte la platea dei tifosi e dei fedeli tende a sottovalutare. Appunto perché il dissenso fa appello a tutte quelle risorse di pazienza a cui il governo di un paese così complicato deve sempre saper attingere.
A dispetto delle apparenze e dei luoghi comuni, il più delle volte una modica quantità di indisciplina giova alla causa. Infatti, governare facendo i conti con il dissenso, il mugugno, perfino con un limitato grado di disordine affina il senso del comando, lo abitua alla flessibilità, alle digressioni, agli scarti. In una parola a tutto quello che una società complessa come la nostra produce in continuazione. Disturbi che vanno accettati, riconosciuti e all’occorrenza metabolizzati. Perché la liberalità è sempre la forza interiore del potere. E perché la democrazia non siamo mai noi, per quanto largo sia il consenso che ci premia. Democrazia è sempre l’altro. Per fastidioso che sia”.
(di Marco Follini)