(Adnkronos) – “Per un attimo, solo un attimo, la morte di Elisabetta, regina d’Inghilterra, ci consente di sospendere il mesto tran tran della nostra campagna elettorale e di sollevare lo sguardo un po’ più su. Laddove, al netto delle emozioni di tutto il mondo, si staglia anche un romanzo di potere che andrebbe raccontato senza troppe cerimonie.
S’intende, una regina è una regina, non un presidente (comunque venga scelto). E il Regno Unito a sua volta è un paese unico per storia e tradizione. Dunque, occorre andar piano anche con i paragoni, i rimandi, le deduzioni. Eppure, di fronte a una sovrana durata per oltre settanta anni viene quasi naturale celebrarne i caratteri e tentare di spiegarne la longevità.
Il potere della monarchia inglese s’è sempre fatto forte di una storia antichissima e controversa. Ma l’abilità della sua ultima esponente, Elisabetta per l’appunto, è stata quella di rendere quel potere più ecumenico, meno chiuso in se stesso di come il suo blasone avrebbe forse suggerito. La regina si è intrattenuta con i Beatles, facendoli baronetti, e si è piegata -non senza qualche fatica- al culto della principessa Diana. Per usare le parole del nostro lessico, verrebbe da dire che ha saputo gestire il trono con la flessibilità dovuta ai tempi moderni, alla civiltà di massa e allo spirito democratico. Portata a concedere sempre qualcosa, ma mai troppo.
La famiglia Windsor ha incarnato insomma nella sua versione più recente il racconto di un potere solido, longevo, solenne, poco incline alla modestia, non troppo ansioso di rincorrere il clima dell’epoca ma anche attento a non sfidarlo troppo apertamente. Insomma -guarda cosa- il contrario di molti di quei paradigmi che improntano, ad esempio, le nostre campagne elettorali e i nostri racconti politici.
Una monarchia, si dirà, non può essere troppo alla mano. E tantomeno troppo demagogica. Ha bisogno di una certa solennità per dare senso a se stessa. Peraltro, non si può dire che Elisabetta non abbia avuto, anche lei, le sue traversie; e che molte di esse non siano state ereditate prima del tempo da suo figlio Carlo in cerca, ancora oggi, di un suo riscatto. Eppure si intuisce lungo tutto il corso di questa storia lo sforzo di non piegarsi troppo alla vulgata e di opporre semmai alla difficoltà e alla maldicenza una sorta di resilienza, come si dice oggi.
Tra gli sberleffi dei cantanti pop (non tutti, certo) e le maliziose ricostruzioni affidate a serie televisive tutt’altro che compiacenti, il potere dei Windsor si è trovato sotto tiro spesso e volentieri. Ma si è difeso appunto cercando più che altro di restare se stesso, di tener fede alle proprie parole d’ordine, di non stravolgere il proprio copione istituzionale, di non rincorrere la moda del momento. Certo, col vantaggio di non doversi misurare ogni cinque anni con le sfide elettorali. Ma anche con il compito di tenere -almeno un po’- il passo dei sentimenti corali dei suoi cittadini.
Sorretta da alcuni secoli di storia, la monarchia Windsor ha accompagnato il Regno Unito lungo una ripida china discendente, ritraendosi inevitabilmente dal dominio coloniale e anche dal primato geopolitico della prima metà del secolo scorso. Erano percorsi obbligati, segnati da tempo nel calendario della storia. Ma si può dire che siano stati attraversati senza scomporsi e senza sgretolarsi. In qualche modo rimanendo, per quanto possibile, gli stessi di prima.
Credo che alle spalle di tutto questo si intraveda un’altra idea del potere. Solenne, quasi ieratico. Non affannoso. Non troppo incline a correr dietro le mode. Eppure a suo modo sensibile al clima di opinione pubblica. Un potere che ha avuto la fortuna, ma anche la forza d’animo, di misurare i suoi passi su un calendario lungo e fitto, risparmiando a se stesso e forse anche ai suoi sudditi, quei modi trafelati di inseguire il giorno per giorno che sono il contrassegno delle leadership che oggi vediamo disputarsi il campo.
C’entra qualcosa tutto questo con le nostre più modeste fatiche elettorali di questi giorni? Temo di si. Perché la nostra repubblica tende a suddividersi in tante piccole monarchie, quanti sono i leader e i partiti che si contendono lo scettro. Perché andiamo sempre in cerca di un taumaturgo, che è per definizione una figura regale. E perché noi, cittadini e non sudditi, non vediamo l’ora di detronizzare le figure che abbiamo appena incoronato. Salvo poi guardare gli inglesi con una sorta di malcelata invidia”.
(di Marco Follini)