“I tempi della giustizia sono ancora uno dei più gravi problemi italiani. I tempi che si allungano enormemente sono un male per gli imputati e per la società. Gli imputati, in particolare, faticano far valere la propria innocenza e, quando ci riescono come nel mio caso con due assoluzioni al tribunale di Monza e, poi, a quello di Appello di Milano, i cittadini non seguono più il caso e rimangono indelebili le stigmate negative del processo mediatico, quello sommario avvenuto a tambur battente su tv, giornali e oggi anche sui social. In ogni caso ho sempre fiducia nella giustizia, ma mi passi la vecchia battuta di Giulio Andreotti che bisogna avere vita lunga per affrontare un processo in Italia”.
Nonostante quanto accadutogli abbia totalmente cambiato la sua vita, Filippo Penati affermava di continuare a credere nella Giustizia. Nato a Monza il 30 dicembre 1952 (aveva 66 anni), dirigente del Pd, Penati è stato sindaco a Sesto San Giovanni e, dal 2004 al 2009, presidente della Provincia di Milano. “La cosa a cui tengo di più è la mia – ripeteva a proposito della sua esperienza politica – esperienza come sindaco di Sesto San Giovanni. Sono stati anni esaltanti ricchi di soddisfazioni perché i cittadini nel riconfermarmi a pieni voti al secondo mandato hanno compreso il mio impegno per i deboli e condiviso il mio lavoro per la riconversione industriale della città delle fabbriche. L’opera non è ancora conclusa, ma di certo con la mia amministrazione abbiamo avviato il percorso sul binario giusto, quello di tutelare il lavoro di tanti operai e di aprire una stagione di innovazione per il sistema produttivo sestese. Di questo sarò sempre orgoglioso”.
Lui, che ha dedicato la vita intera alla politica, a parte le vicende che lo hanno visto coinvolto, lamentava il declino di un’etica, una ‘vocazione’, oggi volta più al potere ed al personalismo: “Oggi faccio fatica a riconoscermi nella politica attuale, che trovo debole quando non priva di senso morale – affermò nel corso di una recente intervista – Anche il mio ex partito, il Pd, non sfugge a questo declino generale. Non riesce ad interpretare il riformismo che è sempre stata la chiave di volta di una sinistra di governo. Che poi è anche un tratto della mia autobiografia. Ma non sono lontano dal dibattito politico, anche se oggi ho meno tempo di seguire le vicende talvolta rocambolesche della politica nazionale. Spero sempre non tanto in un improbabile ‘delfino’, ma in un rinnovato impegno di giovani per cambiare le cose. Ce ne sono, ma oggi sono stretti da logiche correntizie. Dovrebbero rivoltare il tavolo e far saltare tutti i conservatorismi che ancora frenano la sinistra italiana. E’ questo l’unico modo per non far soccombere il socialismo europeo e renderlo competitivo nel mondo fluido e pericoloso del populismo e del sovranismo in cui siamo immersi”.
Penati combatteva da diverso tempo contro un tumore, a suo avviso conseguente al dolore provocato dall’inchiesta Milano-Serravalle, nel quale è stato coinvolto pubblicamente. Per questo, affermava che all’origine della sua malattia “tra le cause scatenanti sicuramente le conseguenze della mia lunga vicenda giudiziaria”.
Chiuso nella sua casa, circondato dall’affetto e dalle attenzioni degli amati filgi Ilaria e Simone, Penati ha lottato fino all’ultimo: “Io sono sempre il Filippo di un tempo – aveva tenuto a ribadire – Forte e combattivo. Soprattutto perché sono certo di aver sempre operato a vantaggio delle comunità che ho amministrato: dal comune di Sesto San Giovanni, alla Provincia di Milano, alla Regione Lombardia. Sono convinto che le cure, che mi danno tanta sofferenza, avranno ragione delle lungaggini della giustizia e mi consentiranno di vedere riconosciuta la mia piena innocenza anche sul piano della giustizia contabile, perché ricordo che la giustizia penale mi ha già riconosciuto innocente. Condannare una persona normale – continuava giustamente a denunciare – io sono un insegnante in pensione, a risarcire 20 milioni di euro è un assurdo, credo mai visto nella storia della magistratura contabile. Quale cittadino si avventurerà a candidarsi a guidare una comunità con una spada di Damocle del genere sulla testa. Sentenze così intimidiscono chi si occupa di pubbliche amministrazioni, che al contrario dovrebbe essere una vocazione incentivata, perché è la quintessenza della nostra Costituzione democratica. Certo i miei avvocati stanno leggendo attentamente le sentenze e a breve faranno i passi che riterranno i più validi, in Italia ed in Europa, per rovesciare una sentenza irragionevole ed erronea”.
Infine, per quello che potremmo definirlo una sorta di suo testamento ‘morale’, guardandosi indietro, l’ex dirigente del Pd affermava che “Non ho rimpianti, ma sento ancora tanta amarezza per come il mio partito, il Pd, mi ha trattato all’esplosione dell’inchiesta sul cosiddetto Sistema Sesto. Sulla base di un semplice avviso di garanzia, senza sentire il dovere di ascoltarmi, in violazioni dello statuto e delle più elementari norme costituzionali sulla presunzione di innocenza, sono stato espulso da un giorno all’altro dal partito a cui avevo dedicato tanta parte della mia vita, accrescendo così la gogna mediatica verso di me. Ancora più grande è stato il mio dolore quando i Democratici di Sinistra decisero di costituirsi parte civile contro di me nel processo. Processo da cui poi sarei stato assolto. Sono fatti gravi che non si possono dimenticare. Sono certo che non verrò ricordato per queste vicende. In tanti anni di attività politica a livello locale e nazionale ho fatto certo tanti errori, e chi non ne compie…”
Max