(Adnkronos) – “Quando stai tanto male non puoi restare sola con te stessa, con i tuoi fantasmi, neanche la notte. Io oggi navigo nel buio, ho paura, sento di aver perso delle certezze nel mio percorso di cura”. Alessia ha 40 anni e, mentre racconta all’Adnkronos Salute la sua guerra quotidiana coi disturbi del comportamento alimentare, le lacrime le rigano le guance. Soffre di anoressia nervosa e di attacchi di bulimia. “Attraverso fasi di digiuno che mi abbattono, e fasi di grandi abbuffate in cui mangio e vomito, mangio e vomito. Se ne parla molto poco, ma dovete capire che questa è una malattia”. E nella fase più acuta “non si cura a casa”, sospira al telefono.
Oggi è in attesa di un posto letto in comunità. “Il primo disponibile? Luglio 2023. Un anno è lunghissimo. E il mio timore è che, nel frattempo, con il taglio dei posti letto per il Centro Dca dell’ospedale San Raffaele Ville Turro di Milano, possa diventare difficile avere un ricovero in un contesto che per molte di noi è stato un porto sicuro. Non si smantelli un modello che funziona”, chiede. Alessia non è l’unica a pensarla così. Le voci dei pazienti e i loro appelli stanno crescendo. La questione che li preoccupa la riassumono così: “Il numero dei letti per Dca è sceso da 20 a 5”. La posizione dell’ospedale, l’unica e ripetuta più volte, è: “Continuiamo a ricoverare nel rispetto della lista di attesa”, solo si è deciso “di definire un percorso clinico differente” che “prevede la gestione della fase acuta per lo squilibrio metabolico e cardiovascolare presso i reparti internistici o pediatrici”, come dichiara il direttore sanitario di San Raffaele Turro, Salvatore Mazzitelli.
La fase post acuta di riabilitazione, prosegue, “può avvenire sia in Day hospital, o in alternativa in ricovero presso il nostro reparto di riabilitazione psichiatrica di San Raffaele Turro”. Ma questa proposta non convince i pazienti. “E’ un passo indietro”, sostengono alcuni genitori di ragazze che hanno vissuto l’esperienza del ricovero nella modalità precedente, ritenendola cruciale. “Ascoltate i pazienti”, chiedono. Pazienti come Veronica, che dice con forza: “Il ricovero a Ville Turro mi ha salvato la vita”.
Lei lo ha affrontato due volte, “a novembre e dicembre 2018 e a luglio 2019”. Poi è stata seguita in ambulatorio fino a maggio 2022. Oggi “sono seguita privatamente da psichiatra e psicologo – prosegue Veronica – Per la mia famiglia è un sacrificio molto grande”, riflette. Le malattie alimentari sono complesse, colpiscono la mente e il corpo, “necessitano di cure multidisciplinari (psichiatri, psicologi, dietisti) in reparti specializzati e dedicati”, sottolineano i pazienti che non vorrebbero “veder spezzettare il percorso”. Per i casi più gravi è previsto il ricovero. Ci sono poi il Day hospital e l’ambulatorio. Il percorso per uscirne è lungo e faticoso. E serve “un aiuto a 360 gradi”, dicono i pazienti.
Sul supporto ricevuto nella struttura milanese, il coro di voci è unanime: “Ero distrutta dalla malattia”, lì “ho trovato un’assistenza che mai mi era stata data in passato, figure competenti e capaci di svolgere il loro lavoro”, riassume Erika, 22 anni, che ha preso carta e penna dopo che il responsabile del centro, Stefano Erzegovesi, si è dimesso e dopo aver appreso della riorganizzazione del percorso. “Cinque posti letto”, dice, “sono una miseria, contando tutte le persone che a causa dei Dca muoiono ogni giorno”. E’ vero, aggiunge, “il Mac (Macroattività ambulatoriale complessa, ndr) è stato intensificato e le pazienti con rischio di vita ‘maggiore’, passatemi il termine, vengono a fare i pasti assistiti sia per pranzo che per cena”. Ma per Erika non basta.
“Al Mac – interviene Alessia – entri dopo colazione, pranzi, stai in stanza per diverso tempo, fai un breve corso di rilassamento, ceni e alle 19 ti mandano a casa. E lì cominciano le mie paure. Io poi posso rimangiare, fare qualunque genere di cosa”. Erika ha cominciato a soffrire di anoressia “alle elementari”, ha vissuto “entrando e uscendo da ospedali come un pacco postale” per “ben 10 anni”, è arrivata al liceo “distrutta”. Viene a conoscenza del Centro Dca di Ville Turro. “Ero disperata, volevo uscire dal girone infernale” della malattia, “ma non sapevo come fare”, spiega la 22enne. A dicembre 2020 il ricovero, l’avvio di un percorso, la psicoterapia, il Day hospital, un secondo ricovero lo scorso luglio. Oggi, racconta, “sono in grado di lavorare lontano da casa, in cucina come aiuto cuoco”, lei che con il cibo ha combattuto per anni. “Con l’aiuto ricevuto ho conquistato indipendenza e libertà”. Il suo timore? “La nuova riorganizzazione del reparto sembra un palliativo”.
La durata di un ricovero per queste patologie “non si può prevedere in anticipo, dipende dalle condizioni fisiche e soprattutto psichiche del paziente”, spiega chi ci è passato. Come diversi studi hanno dimostrato, poi, la pandemia di Covid ha aggravato la situazione dei disturbi del comportamento alimentare con un effetto detonatore, complici l’impatto del lockdown, le vite travolte dal virus. Secondo le stime, è aumentato fino anche al 30-40% il numero di richieste d’aiuto. Spesso si è parlato di pandemia nella pandemia. E più pazienti rispetto al passato sono arrivati alle strutture con situazioni gravi, i tempi di ricovero si sono allungati. E quando cresce il bisogno d’aiuto, crescono anche i costi per il sistema.
“Però – obietta Erika – i Dca valgono tanto quanto le altre malattie”. Alessia racconta: “Non c’è solo il disturbo alimentare, chi ne soffre ha problemi più ampi”. L’organismo è debilitato, “sei disidratato, hai problemi di battito cardiaco, ai reni”. Nella fase più difficile il destino di questi ragazzi è appeso a un filo, ricordano le famiglie. “E se il ricovero avviene in un reparto non specializzato, è difficile che tu possa ricevere un aiuto completo – aggiunge Alessia – Ti fanno una flebo, un’ecografia. Se per loro è tutto a posto ti rimandano a casa dopo un paio di giorni. Ma anche i familiari come fanno a gestire a casa una persona che non ha mangiato un piatto di pasta per mesi?”. Le lunghe attese per un posto sono il problema che viene segnalato da diversi genitori come una “situazione generale” frequente “sul territorio nazionale”. Una ragazza scrive: “Dopo la morte di mio padre sono ricaduta in un buco nero”. E “dopo 5 mesi sto aspettando ancora un ricovero”.
C’è chi descrive questa esperienza come un spartiacque fra un prima e un dopo. Anna racconta la sua esperienza proprio nel reparto Dca del San Raffaele Turro. Prima reazione? “Il Natale qui non lo passo neanche morta”, ricorda. “Non avevo la minima intenzione di cedere, né di cambiare. Eppure è successo”. Anna dice di essersi sentita accolta e ascoltata, supportata e guidata. “Auspichiamo che il San Raffaele continui a essere un punto di riferimento – conclude Aurora Caporossi, presidente dell’associazione Animenta – Per curare serve tempo, anche un tempo di ricovero in alcuni casi. Abbiamo visto emergere un grido d’aiuto dai pazienti. In queste malattie ci si sente molto soli. Ed è fondamentale avere un supporto specializzato, sapere di poter mettere il proprio figlio nelle mani di chi può aiutarlo. E’ come se si parlasse una lingua diversa che in quel momento nessuno comprende, e quando succede è difficile capire come gettare un ponte. In questa fase serve una realtà che metta il paziente in primo piano, ne riconosca la sofferenza e dia tempo al nucleo familiare di intraprendere un percorso dedicato anche a loro. Per questo speriamo che il dialogo resti aperto”.
LA LETTERA DEL MOVIMENTO LILLA – “Quanto da noi ascoltato nel merito della ‘rimodulazione'” del reparto per la cura dei disturbi del comportamento alimentare (Dca) del San Raffaele Turro di Milano “non ci ha assolutamente convinti: la sostanza è e resta quella di un corposo taglio dei posti letto e di un approccio medicale incentrato sui sintomi e non sulla presa in carico globale della malattia alimentare”. E’ la replica del Movimento Lilla alle spiegazioni date dalla dirigenza del San Raffaele e del Centro Dca in occasione dell’incontro organizzato nei giorni scorsi dalla consigliera regionale lombarda, Simona Tironi. Il movimento in una lettera aperta aveva parlato di “sostanziale smantellamento di quello che era un centro di eccellenza per la città di Milano e un punto di riferimento di portata addirittura extraregionale”.
E in una nuova lettera fa riferimento alle parole del direttore sanitario Salvatore Mazzitelli, che in una dichiarazione ha spiegato che per i pazienti con disturbi alimentari è stato “definito un percorso clinico differente che consente di essere sempre più aderenti ai protocolli di cura e di conseguenza più efficaci nella terapia”. Parole a cui il Movimento Lilla replica chiedendo di “poter conoscere a quali protocolli di cura si ispira concretamente il percorso” e “quali metodi di misura di maggiore efficacia sono stati studiati e adottati”. E precisa lo spirito che anima l’azione del movimento, quello di una realtà “composta da associazioni territoriali a loro volta formate da famiglie, pazienti ed ex pazienti che hanno attraversato, con esiti spesso di perdita di un figlio o un familiare, il tunnel dei Dca”. Quindi non una realtà portatrice “di interessi partitocratici e/o settari, come talvolta inopportunamente alluso durante l’incontro”, puntualizza.
L’obiettivo, chiarisce il Movimento Lilla nella lettera, è “dare voce a chi aspetta cure e prestazioni sanitarie, per lo più salvavita, a causa di un problema Dca”. E per questo alla nuova lettera inviata al San Raffaele allega le testimonianze dei pazienti. Come Anna, 20 anni, che racconta la sua esperienza durante l’emergenza Covid, quando “i posti letto dedicati ai Dca” sono stati “dimezzati e spostati in un’altra palazzina”. Lei viene “ricoverata in un reparto di riabilitazione nutrizionale fuori regione, un tentativo di aiuto inutile e non efficace. Lontano dai medici che mi conoscono e seguono da anni e lontana dall’unico reparto in cui ripongo fiducia”.
Un’altra ex paziente, Marta, spiega che “entrare in ricovero” l’ha “salvata. Ho potuto fermarmi, guardare al problema e trovare un modo per affrontarlo senza lo stress della vita quotidiana”. “A volte c’è bisogno di un intervento ‘drastico’, il ricovero, non avere distrazioni e poter davvero curarsi. Sono passati 4 anni dal mio ultimo ricovero. Ora sto bene, ma penso spesso ai mesi passati in reparto, a quello che mi hanno insegnato. Quando ho un momento di difficoltà col cibo ripenso ai pranzi in silenzio con le infermiere che ci guardavano e sono grata di poter essermi curata”. Anche un ragazzo, Nicholas di 26 anni, dice la sua in modo “schietto e sincero”: “Posso affermare che probabilmente senza il ricovero” nel reparto per i disturbi alimentari del San Raffaele Turro “non so se ce l’avrei fatta. Ero arrivato ad un punto di non ritorno”. In queste situazioni serve un “ricovero completo a 360 gradi, in cui si viene seguiti per tutta la giornata da un’équipe di medici e infermieri esperti e preparati”.
Cita infine le difficoltà vissute nel lockdown Francesca, parlando della sua ricaduta nell’anoressia. “Il mio psichiatra si mosse all’istante: mi mise di nuovo in lista d’attesa e mi salvò letteralmente la vita. Sì, mi salvò fisicamente, ma non solo. Mi tenne in reparto per 3 mesi, e lì, nella fase più acuta della mia malattia, venni veramente aiutata”. In un altro passaggio, tocca il punto su cui si concentrano tante preoccupazioni: “Il mio primo ricovero venne fatto in palazzina E, dove si trovava il reparto Dca, e fu completamente diverso dal secondo. C’erano strumenti, mezzi adeguati, più spazio per le varie attività fondamentali per la guarigione, un’organizzazione differente della giornata. Già durante il secondo ricovero, il reparto era stato invece temporaneamente spostato in palazzina G, quella di psichiatria. Non c’era spazio per le attività, c’erano meno posti letto. Ma non pensavo che la situazione potesse peggiorare ulteriormente”.