Nel trattamento del diabete di tipo 2, le insuline basali di seconda generazione migliorano il controllo della glicemia con un basso rischio di ipoglicemie e di eventi avversi gravi anche nel Real World e non solo negli studi registrativi. E’ un dato molto importante perché nella vita reale i pazienti non sono selezionati e si rivelano spesso complessi, in quanto affetti da più patologie, concomitanti. A dimostrarlo – riporta una nota Sanofi – è lo studio retrospettivo multicentrico di non inferiorità ‘Restore-2’, che per la prima volta ha confrontato efficacia e sicurezza delle insuline basali di seconda generazione Glargine-300 e Degludec-100 in una popolazione eterogenea di pazienti con diabete di tipo 2, attraverso i dati provenienti dalla pratica clinica. I risultati della coorte naive sono stati discussi in una presentazione orale in occasione del Virtual annual meeting 2021 della European association for the study of diabetes (Easd) che si è appena concluso.
Nei pazienti adulti naïve (non precedentemente trattati con insulina), Gla-300 (insulina glargine 300 U/mL) e Deg-100 (insulina degludec 100 U/mL) hanno portato a un controllo glicemico sovrapponibile a sei mesi dall’inizio delle terapie con una riduzione significativa in entrambi i gruppi, senza che si siano verificati aumenti di peso. Dal punto di vista della sicurezza, il rischio di ipoglicemie è risultato molto basso, senza eventi avversi gravi. Dopo 12 mesi di trattamento, la riduzione dell’emoglobina glicata (HbA1c) è stata mantenuta in entrambi i gruppi, sebbene la riduzione sia stata nominalmente maggiore nel gruppo Gla-300. La titolazione dell’insulina basale non è stata ottimale in entrambi i gruppi.
Lo studio ‘Restore-2’, interamente italiano, ha coinvolto 19 centri ospedalieri ed è stato coordinato dal Dipartimento di Medicina dell’Università degli Studi di Padova, dal Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza Università di Roma, dal Dipartimento di Medicina dell’Università degli Studi di Messina e dal Center for Outcomes Rsearch and Clinical Epidemiology (Coresearch) di Pescara.
“Lo studio ‘Restore-2 Naive’ è importante per almeno due motivi – ha spiegato Gian Paolo Fadini, professore associato di Endocrinologia presso l’Università di Padova – Da una parte perché fornisce, per la prima volta, una fotografia di come viene trattato il diabete di tipo 2 in pazienti che iniziano la terapia insulinica basale nella pratica clinica diabetologica quotidiana, e rappresenta un punto di riferimento nel panorama europeo per quanto riguarda il confronto delle insuline di seconda generazione in setting Real World. I dati indicano che le due insuline di seconda generazione hanno un’efficacia sovrapponibile e un buon profilo di sicurezza anche nel Real World, e non solo negli studi registrativi. Anche nel paziente complesso e non selezionato si può raggiungere, quindi, un buon equilibrio tra efficacia e sicurezza. Questo – sottolinea – dovrebbe spingere i clinici e pazienti ad utilizzare le insuline basali con maggiore fiducia per garantire una migliore titolazione della terapia insulinica e quindi anche una migliore gestione complessiva del diabete di tipo 2”.
Nella normale pratica clinica – si legge in una nota – si riscontra, infatti, una certa inerzia nella gestione della terapia insulinica, in parte per il timore delle ipoglicemie, in parte per la complessità delle misurazioni, o perché l’algoritmo per valutare la glicemia a digiuno deve essere personalizzato e può non essere immediato applicarlo. Queste ‘barriere’ sono alla base dell’inerzia terapeutica verso i pazienti con diabete tipo 2 che invece avrebbero bisogno, in questo caso, di essere maggiormente trattati, anche grazie alla disponibilità di nuovi presidi terapeutici più sicuri.
“Esiste una certa complessità nella gestione del diabete di tipo 2 – continua Fadini – che le insuline di seconda generazione aiutano a superare: la scarsa variabilità nell’arco delle 24 ore e da un giorno all’altro dovrebbe permettere di titolare l’insulina in modo più efficace, raggiungendo ulteriori riduzioni di emoglobina glicata, e questo può avere un’importante ricaduta nella pratica clinica”.